IL DISAGIO DELLA NORMALITA'
PRETTY, un motivo per essere carini di Neil LaBute
regia di Fabrizio Arcuri. Al Teatro Nuovo di Napoli fino al 19 gennaio
Servizio di Antonio Tedesco
Napoli – L’impossibilità di essere normali. O la normalità di essere impossibili. La necessità di adeguarsi ai canoni che il mondo impone. Compreso il desiderio di essere, all’interno di quei canoni, speciali. La fragilità che questa ricerca costante comporta. Il dubbio, sempre in agguato, di essere inadeguati, di non sentirsi all’altezza. L’altro, soprattutto quello che ci sta più vicino, che diviene specchio attraverso il quale riflettiamo la nostra immagine nel mondo. Il tutto complicato ulteriormente dalla costante difficoltà a comunicare in maniera reale, sincera. Basta poco per sentirsi soli. Una parola male interpretata, un atteggiamento frainteso. E il precario castello di carte che sostiene relazioni e sentimenti crolla immediatamente.
regia di Fabrizio Arcuri. Al Teatro Nuovo di Napoli fino al 19 gennaio
Servizio di Antonio Tedesco
Napoli – L’impossibilità di essere normali. O la normalità di essere impossibili. La necessità di adeguarsi ai canoni che il mondo impone. Compreso il desiderio di essere, all’interno di quei canoni, speciali. La fragilità che questa ricerca costante comporta. Il dubbio, sempre in agguato, di essere inadeguati, di non sentirsi all’altezza. L’altro, soprattutto quello che ci sta più vicino, che diviene specchio attraverso il quale riflettiamo la nostra immagine nel mondo. Il tutto complicato ulteriormente dalla costante difficoltà a comunicare in maniera reale, sincera. Basta poco per sentirsi soli. Una parola male interpretata, un atteggiamento frainteso. E il precario castello di carte che sostiene relazioni e sentimenti crolla immediatamente.
Steph non può sopportare che Greg, il suo
uomo, abbia definito il suo viso “normale”. Carly, infatti, avendo ascoltato
casualmente la confidenza che Greg aveva fatto a Kent, il suo fidanzato, ha
ritenuto doveroso informare immediatamente la sua amica Steph di tale giudizio
“oltraggioso”.
E’ la scintilla, lo spunto che dà il via a
questa brillante, in superficie, ma sotterraneamente drammatica pièce
del drammaturgo americano (molto attivo anche come sceneggiatore e regista
cinematografico) Neil LaBute, e nella quale le vicende e i destini dei quattro
personaggi protagonisti si intrecciano per offrire uno spaccato di “ordinarie
follie” individuali, compresse e centrifugate in quell’altra grande follia più
diffusa e generalizzata che percorre, ormai, l’intero mondo contemporaneo.
Ovviamente non è l’intreccio amoroso ad interessare particolarmente il
drammaturgo, quanto piuttosto le maniere con cui i linguaggi della
contemporaneità si esprimono. E i disagi e le sofferenze che attraverso tali
linguaggi, seppur involontariamente, emergono e si evidenziano. Non a caso il
regista di questa versione italiana di Pretty,
un motivo per essere carini, in prima nazionale al Teatro Nuovo di Napoli,
oltre a rimarcare il fuoco di fila secco e incalzante dei dialoghi, così come
già concepito nel testo originale di LaBute, lavora molto sul linguaggio del
corpo, sulla concreta fisicità messa in campo dai suoi attori. Quella fisicità
ostentata ed estetizzante che è un tipico luogo della modernità, o almeno dei
suoi modelli più diffusi e accettati. Quella fisicità accuratamente levigata
sotto la quale si spalancano vuoti spesso abissali. Così c’è tutta una
particolare gestualità, praticata dagli attori, un insieme di posture e di
atteggiamenti, ma anche di tic e di pose, che vanno a costruire un sottotesto a
suo modo più espressivo e inquietante delle parole stesse. Mentre il momento di
abbandono, di consapevolezza profonda, di disarmante sincerità, cui a turno i
quattro personaggi si sottopongono, è delegato, ovviamente, all’occhio di una
telecamera che riproduce e raddoppia l’immagine, affidando alla sua superficie scivolosa,
anche l’anima di questi piccoli, fragili e irritanti allo stesso tempo,
“campioni” dei nostri tempi. Ai quali prestano i loro corpi, nervosi,
sfuggenti, frenetici e, per molti versi, iconici, i bravi Filippo Nigro,
Fabrizia Sacchi, Giulio Forges Davanzati e Dajana Roncione, che si misurano
abilmente sul ritmo serrato dei dialoghi e sul totale e fortemente impegnativo coinvolgimento fisico.
Mentre, come in un film di David Lynch, e al pari della pioggia di rane che
chiude Magnolia di Paul Thomas Anderson, un attore travestito da grosso
pupazzo si muove sulla scena , come
invisibile agli altri, a sottolineare quanto di surreale e di assurdo vi sia in
tanto apparente realismo.
18 gennaio 2014
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