ZIO VANJA - dI Anton Cechov – Regia di Rimas Tuminas
VANJA TRA I SALTIMBANCHI
DELL'ESISTENZA
Al Teatro Mercadante di Napoli – 21-22 giugno 2014
Servizio di Antonio Tedesco
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Al Teatro Mercadante di Napoli – 21-22 giugno 2014
Servizio di Antonio Tedesco
Napoli. Nella prima scena c’è la vecchia balia che,
truccata e vestita di tutto punto, fuma e parla con Astrov dei tempi andati. Di
quando dieci anni prima il dottore (Astrov, appunto) era ancora un bell’uomo e
il suo futuro pareva luminoso e pieno di speranze. E quella sigaretta infilata
in un lungo bocchino sembra il tempo stesso che si consuma e il suo fumo la
nebbia che ne avvolge il ricordo.
Questo attacco, calato in un impianto
scenografico inusuale, un tavolo da lavoro sulla destra del palcoscenico, il
lato posteriore di un vecchio divano che spunta sulla sinistra mostrando le
assi di legno grezze che ne sostengono la spalliera, esprime al meglio il
tenore di questo nuovo allestimento di Zio
Vanja, di Cechov, messo in scena da Rimas Tuminas al Teatro Mercadante per
il Napoli Teatro Festival. Il regista lituano mostra così di volersi
concentrare principalmente sulla condanna dell’uomo inchiodato al suo destino.
Sull’insufficienza della memoria che, pur scaturendo dall’esperienza, non
riesce mai a determinare il futuro. Siamo dunque nel cuore stesso della poetica
cechoviana, ma ciò che dà forza e rende originale questo allestimento è la
maniera in cui tali temi vengono trattati. E cioè infondendo alla
rappresentazione un tono vagamente survoltato, una sorta di accelerazione, non
tanto nei ritmi quanto nelle forme espressive. Che vengono ripulite dagli
usuali toni dimessi e naturalistici, virando con decisione, invece, nei
territori del vaudeville e della pantomima. In tal modo gli aspetti peculiari
dei vari caratteri presenti in scena vengono accentuati con pose e atteggiamenti
non di rado volutamente sopra le righe. L’ingresso del professore (personaggio
fatuo e vanaglorioso, inconsapevole antagonista di Vanja) con la sua piccola
corte formata da giovane moglie, ex suocera e amici compiacenti, avviene in
un’atmosfera di assorta sospensione. Come fossero fantasmi, residui di un altro
mondo che si ostinano a cercare uno spazio (una dimensione) che possa ancora
permettere loro di esistere. Come pirandelliani personaggi in cerca d’autore,
tentano disperatamente di riaffermare il loro ruolo, di raccontare ancora la
loro storia, descrivere ostinatamente il loro destino. Condannati ad essere se
stessi e, allo stesso tempo impossibilitati ad esserlo veramente.
Tutto questo, poi, traspare soprattutto da
una recitazione che, come abbiamo potuto solo intuire, essendo il testo
recitato in lingua originale da una compagnia di bravissimi attori russi, viene
resa straniata, a tratti meccanica, in certe tirate quasi ridotta a cantilena,
giusto a rimarcare la ripetitiva immobilità di una condizione umana bloccata in
se stessa, afflitta da una sorta di paralisi esistenziale dalla quale non
riesce, o forse non vuole, liberarsi. Vanja e tutti gli altri personaggi si
definiscono essenzialmente come archetipi immutabili di un mondo che gira a
vuoto intorno alle proprie illusioni e delusioni. Capaci solo di “consumare” e
dunque distruggere, a poco a poco le proprie vite e lo stesso ambiente in cui
vivono. Significativa, a questo proposito, la posizione “ecologista”
antelitteram che Cechov attribuisce al dottore, impegnato nella difesa dei
boschi e delle foreste della Russia. E che già prevede le gravi conseguenze che
la loro progressiva distruzione porterà.
Il testo di Zio Vanja, come sempre nell'autore russo, parla in termini dimessi
di tragedie universali. Ma proprio quest’impossibilità di controllarne la
portata, o anche solo di percepirle semplicemente per quello che sono, rende
tali tragedie grottesche, a volte ridicole.
Ed è giusto questa contraddizione, che
attraversa prepotentemente tutta l’opera di Cechov, che Tuminas coglie con
precisione e che, con il decisivo contributo dei suoi attori, restituisce in
termini, teatralmente parlando, ineccepibili. Trasformando Zio Vanja
quasi in un’opera da saltimbanchi, senza perderne mai, però, la sottile tensione
che l’attraversa. Quasi fosse una “allegria di naufraghi”, dove ogni
personaggio costituisce un mondo a sé che resta rigorosamente separato da
quello degli altri. Ognuno chiuso nel suo destino percepito come condanna
inappellabile, come si evidenzia nell’ultima drammatica scena in cui Sonja,
riversa sulla schiena con le braccia spalancate, su quel tavolo che allude a un
banco da falegname, emblema del duro lavoro sul quale si consumeranno i giorni
avvenire suoi e di Zio Vanja, è un’immagine di crocifissione che, pur nella sua
inattesa e commovente drammaticità, riscatta la miseria della condanna nella
nobiltà estrema del sacrificio.
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