UN GABBIANO - da Anton Cechov – Adattamento e regia Gianluca Merolli
STORIE DI FANTASMI RUSSI
Al Teatro Sannazaro di Napoli – 19-20 giugno 2014
Servizio di Antonio Tedesco
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Al Teatro Sannazaro di Napoli – 19-20 giugno 2014
Servizio di Antonio Tedesco
Napoli. Jean Cocteau teorizzò che “Il cinema
è la morte al lavoro”. Si potrebbe dire qualcosa del genere anche per il teatro
e per tutta l’arte in generale? Lasciando sospesa la risposta a questa domanda
possiamo affermare che, almeno per Cechov, il teatro è una rappresentazione di
fantasmi. Di anime inquiete che si aggirano sulla scena (della vita?)
condannate a reiterare gesti e azioni inconcludenti. Anime invisibili anche a
se stesse e che, con la leggerezza propria di un ectoplasma, attraversano
quella stessa vita senza lasciar traccia. Non è un caso, infatti, che il bianco
(in molte culture il colore della morte) ammanti di sé tanti famosi
allestimenti cechoviani.
Gianluca Merolli, in questa sua messa in
scena, significativamente intitolata Un
gabbiano, presentata al Teatro Sannazaro nell’ambito del Napoli Teatro
Festival, tratta dal quasi omonimo testo di Cechov (Il gabbiano) esprime questo concetto in maniera diversa, preferendo
alla leggerezza, se pur luttuosa, del bianco, atmosfere cupe e buie che
alludono a un senso incombente di decadenza e di disfacimento. Così, basandosi
sui personaggi e sulla trama immaginati dal drammaturgo russo, mette in scena
una sorta di “danze macabre” nella quale gli attori interagiscono oltre che tra
loro anche con il proprio doppio, e cioè dei manichini di pezza che, appunto
per il loro essere inanimati, possono assumere qualunque identità e calarsi in
qualunque ruolo. Una scelta, quella di rappresentare un “teatro fantasmatico,”
evidente fin dal principio, quando ogni personaggio si presenta dichiarando la
propria data di nascita e di morte e agendo quindi, durante la rappresentazione
(vita?) come pura traccia, memoria di sé, riflesso di una scia luminosa che si
è già persa all’orizzonte. Fantasma, appunto. Prigioniero di quella gabbia che
è (stata?) la sua esistenza, il suo destino. Più che mai, allora, il gioco del
teatro rappresenta e si sovrappone al gioco della vita. Cechov nel suo testo
riflette proprio su questa coincidenza, analizzandola da diversi punti di
vista. Dal più intimista e interiorizzato Kostantin, che vive l’arte come
sofferenza e, vinto dall’incapacità di rappresentarla pienamente, arriverà a
sacrificare se stesso. A sua madre, Irina, prototipo dell’attrice istrionica
che vive il suo ruolo in maniera estroversa ed estetizzante. A Nina (“il
gabbiano”), anch’essa toccata dal sacro fuoco del teatro che le brucia dentro
ma senza darle in cambio ciò che si sarebbe aspettata. A Trigorin, lo scrittore
di successo che percepisce, però, dentro di sé la propria sostanziale
inadeguatezza al gravoso compito. Fino al vecchio Sorin, che in questo
allestimento funge un po’ da maestro di cerimonie, che da giovane avrebbe
desiderato esprimersi in maniera artistica, ma poi non è stato in grado di
farlo. Emblemi, ognuno a suo modo, della piccola umanità che gira intorno alle
loro vite ansimando e arrabattandosi come può. Gianluca Merolli infila tutti
questi elementi in una sorta di centrifuga mescolandoli vorticosamente fino a
farli “impazzire”, ed estraendone, alla fine, un contenuto denso e compatto che
esalta Cechov, riducendo gli “ingredienti” che compongono i suoi lavori a pura
essenza. Allo stesso modo come fa con le battute del testo estraendole dal
contesto ed enfatizzandole, elevandole da semplici elementi del dialogo a veri
e propri enunciati in grado di esprimere una sorta di valore assoluto.
Arricchendoli con innesti estranei ma pienamente pertinenti al contenuto, come
quando Irina dichiara, con la Gloria Swanson di Viale del Tramonto (il capolavoro di Billy Wilder del 1950) che “Io
sono ancora grande, è il teatro che è diventato piccolo”, parafrasando la
battuta originale del film che era riferita al cinema. Offrendo, così,
un’ulteriore chiave di lettura a tutto il lavoro, che si nutre, tra l’altro, di
numerose suggestioni cinematografiche, quasi delle sequenze, ottenute con il
sapiente uso delle luci e degli elementi scenici.
“Bisogna trovare nuove forme per l’arte”, fa
dire l’autore al tormentato Kostantin. E Merolli segue con questo allestimento
l’indicazione di Cechov sconvolgendo e rimescolando il suo testo e, sostanzialmente,
rigenerandolo, offrendone una visione forte, espressionista, che arriva alle
viscere dello spettatore, lo costringe a prendere le misure con se stesso e con
un’idea diversa di concepire il teatro. Una messa in scena stratificata, satura
di segni, ma che sa procedere anche con fluidità e una certa leggerezza. Uno
spettacolo che per essere apprezzato pienamente forse andrebbe rivisto più
volte. In questo complesso disegno registico gli attori risultano pienamente
funzionali offrendo prove di grande impegno e qualità. Da Anita Bartolucci,
un’Irina quasi fetish nel suo autocelebrarsi, alla Nina fragile e folle di
Francesca Golia, al Kostantin catatonico dello stesso Gianluca Merolli, alla
ruvida e aggressiva Mascia di Giulia Maulucci, a Enrico Roccaforte, un
Trigorin, “culturistico” nelle sue esibizioni intellettuali, al dimesso
Medvedenko di Fabio Pasquini. Nello
Mascia, “gran cerimoniere” nei panni di Sorin, mette in gioco con maestria
tutta l’esperienza e la maturità artistica ormai pienamente acquisita.
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