Dal 6 al 22 giugno la settima edizione del Napoli Teatro Festival Italia
Cechov, Eduardo e la precarietà dell’uomo contemporaneo
Servizio di Antonio Tedesco
Servizio di Antonio Tedesco
Non è più tempo di eroi. Di grandi e
leggendarie passioni che scuotono le tavole del palcoscenico e le coscienze
degli spettatori. Il nostro è un tempo di uomini. Uomini piccoli, a volte.
Costretti a confrontarsi con una realtà che non sanno più come controllare.
Uomini che con questa realtà, nonostante il travolgente progresso, o forse
proprio per questo, sono costretti a prendere nuove misure, a cercare nuove
dimensioni, nuovi modi di relazionarsi. E chi allora, meglio di Cechov ha
saputo essere il cantore di un’umanità smarrita, perplessa, confusa,
costantemente posta davanti al bivio dei grandi cambiamenti epocali, ma solo
per rimanere bloccata, quasi paralizzata dalla necessità e dall’impossibilità
di scegliere?
Cechov aveva già smascherato, poco più
di un secolo fa, quella certa illusione della modernità prima ancora che questa
manifestasse i suoi risvolti ambigui, i suoi bassifondi di alienazione.
Non può essere un elemento casuale,
quindi, che il NTFI abbia scelto proprio il grande autore russo e il suo
teatro, come linea guida di questa sua Settima Edizione, presentando sei
spettacoli tratti dalle sue più famose opere teatrali. Quasi a costituire la
spina dorsale di un programma che raccoglie trenta rappresentazioni (frutto di
produzioni nazionali e internazionali) concentrate nell’arco di circa venti
giorni e che impegneranno alcune sale teatrali napoletane (Mercadante, San
Ferdinando, Teatro Nuovo, Galleria Toledo) oltre ai suggestivi spazi del Museo
Ferroviario di Pietrarsa già utilizzati anche per la scorsa edizione. Il tutto per un
teatro che attraverso le parole di grandi autori dalla fama già consolidata, ma
anche di contemporanei di altrettanto interesse, riflette sull’uomo, sulla sua
condizione oggi più che mai provvisoria e precaria. Come a formare una sorta di
mosaico i cui tasselli compongono un unico grande affresco, punteggiato da
sprazzi di “tragedie ridicole”, ma proprio per questo così umane. A cominciare
da quella vissuta dai due protagonisti di Finale
di partita di Beckett (nella versione del regista spagnolo Lluis Pasqual,
con Lello Arena), come dalle effimere, eppure a volte insormontabili, barriere
che artificiosamente ogni giorno innalziamo davanti a noi a ostacolare il
cammino della nostra esistenza, nella visione lucida e spietata che in Mura ne dà un maestro storico della
ricerca teatrale italiana come Riccardo Caporossi.
Muri che si ergono come grattacieli a
sfidare il cielo e fanno sentire il singolo individuo ancor più piccolo e
vulnerabile, risucchiandolo in una surreale dimensione della realtà, simile a
quella in cui Karl Rossmann, si trova improvvisamente proiettato in una Amerika (che Maurizio Scaparro ha tratto
dal famoso romanzo di Franz Kafka) dalle dimensioni architettoniche, ma anche
esistenziali, smisurate. Rossmann è un ulteriore prototipo dell’uomo
contemporaneo che si confronta con una realtà i cui ambiti d'azione sono in
breve tempo diventati planetari. E sono poche, in questo contesto, le speranze
di riuscire ancora ad esercitare un minimo di controllo sulle nostre vite,
anche se le più avanzate tecnologie e le relative, velocissime, forme di
comunicazione che hanno prodotto, necessitano ancora di umane pulsioni più
intime e “tradizionali”, per riempirsi di senso e trasmettere vere emozioni,
come avviene in Le ho mai raccontato del
vento del nord, tratto dal romanzo di Daniel Glattauer e interpretato da
Chiara Caselli, dove una coinvolgente storia d’amore si articola sull’onda
immateriale e inafferrabile della posta elettronica che viaggia sul web.
E quanto Cechov c’è nella Boston di Good
People (dell’autore americano David Lindsay-Abaire messa in scena da
Roberto Andò) dove ancora dei “piccoli uomini” in un contesto che tende a
soffocarli e a sopraffarli, come fossero diretti discendenti proprio di quel
Karl Rossmann immaginato da Kafka, si
confrontano con l’insondabile mistero che racchiude le piccole, in apparenza
insignificanti cose della vita quotidiana?
Ben nutrita anche la pattuglia dei
“napoletani”, idealmente guidata da Eduardo, di cui, nel trentennale della
scomparsa viene messo in scena Il sindaco
del Rione Sanità, in una versione tutta “genovese” curata dal regista Marco
Sciaccaluga e interpretata da Eros Pagni. Dove lo sguardo dell’autore sulle
umane vicende racchiuse nel piccolo microcosmo di quel quartiere, che sa farsi
però, mondo e universo, è sempre filtrato attraverso un consapevole e
partecipe sentimento di compassione. Così come avviene pure per Dolore sotto chiave, in origine un
radiodramma, che poi Eduardo mise in scena solo come regista e qui presentato
nella versione di Francesco Saponaro.
E ancora, l'eterna, ancestrale
dialettica “servo-padrone” sarà indagata da Enzo Moscato alla sua maniera con Istruzioni
per minuta servitù, mentre Arturo Cirillo interpreta e adatta per le scene
un famoso romanzo di Giuseppe Patroni Griffi, Scende giù per Toledo. Una
sintesi muta, quasi coreografica, di questo “gioco scenico dell'esistenza” è
quella che ci viene offerta da Giuseppe Sollazzo con Il giorno in cui ci
siamo incontrati e non ci siamo riconosciuti in cui con una trentina di
attori di varia nazionalità si costruisce un piccolo, simbolico universo
brulicante di “vite e destini”. Che anche in Vietato ballare della
napoletana Alessia Siniscalchi sanno trovare snodi e risvolti inattesi e
paradossali. Mentre Manlio Santanelli e Davide Iodice sperimenteranno un teatro
“fuori scena” in due luoghi diversamente rappresentativi della città,
l'Accademia di Belle Arti e il Dormitorio pubblico di Napoli.
Molti ancora gli appuntamenti presenti
in programma, tra cui un interessante focus sull'infanzia e quattro spettacoli
di danza. Un'ampia scelta attraverso la quale ogni spettatore potrà ritagliarsi
un suo specifico itinerario. Che lo porterà (questa volta più che mai) a
riflettere la propria personale esperienza in quella della scena. In un
processo che proprio in quanto teatrale non può che dirsi umano. Troppo umano.
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