“Tre sorelle” al nuovo Teatro Nazionale di Napoli

Da Cechov per la regia di Claudio di Palma fino al 15 marzo

Servizio di Anita Curci

 



Napoli – Con “Tre sorelle” di Cechov per la regia di Claudio di Palma riparte il Mercadante nella sua nuova veste di Teatro Nazionale. Nomina che ci colma di soddisfazione e che, però, date le circostanze, ci fa anche parecchio riflettere.

Arrivato all’ultimo posto in una selezione che vede scandalosamente escluso il teatro di Genova meritevole da sempre di alta considerazione artistica, anche per scelte culturali e politiche di certa serietà, lo Stabile di Napoli porta a casa il trofeo insieme a una serie di motivazioni che pesano. Debole il progetto proposto da De Fusco, che ha, anzi, generato perplessità. Elevata a Teatro Nazionale, dunque, è stata la città, specchio di una identità teatrale storica ancora fortemente pulsante? E’ così, infine?

Bisognerà, allora, darsi da fare.

Si comincia con quel Cechov che il Teatro Festival ci ha abbondantemente propinato. E che non pare terminare qui. In calendario soggetti dello scrittore di Taganrog se ne prevedono ancora.

La prima di “Tre sorelle” del 25 febbraio (in replica fino al 15 marzo) ci ha lasciati un po’ delusi.

Buio, troppo buio, all’apertura del sipario, laddove lo stesso autore fa immaginare luminosità, chiarore, l’illusione di un’armonia che non esiste veramente e che però egli disegna, traccia in qualche modo.

“Oggi fa caldo, si possono tenere le finestre spalancate”, esordisce Ol’ga nel testo originale. “Stamani mi sono svegliata e ho visto tanta di quella luce, è arrivata la primavera!”

Ma sul palco del Mercadante è arrivato l’inverno. Anzi, l’inferno. Scena opaca, triste. Un’autentica discesa nell’Ade. Senza prologo, svolgimento ed epilogo, si è giunti direttamente alla devastazione della Rivoluzione d’Ottobre.

Demoralizzante al punto da farci dolere di non aver maggiormente omaggiato tutto quel biancore evocato da De Fusco nel suo Giardino dei ciliegi.

Una barca solitaria arenata nel proscenio, simbolo di un desiderio di partenza destinato al fallimento. Ci può stare. Ma l’allestimento sprofonda nella assenza di più efficaci meccanismi allegorici.

Latitante ogni avanguardia scenografica e registica, mentre si crea lo strano connubio tra scene (di Luigi Ferrigno) stereotipate, scialbe e una regia senza autentici slanci creativi. E tutto si perde in un languore antico.

Debole la prova di alcuni attori. Peccato, perché invece li avevamo apprezzati in altre circostanze. E’ mancata quella prospettiva di recitazione che trova un equilibrio armonico con il testo e va oltre la fissità del dramma umoristico. Che invece il regista Claudio Di Palma, che nel Giardino dei Ciliegi di De Fusco aveva raggiunto ottimi riscontri nel ruolo di Lopachin, tiene a inquadrare come elemento determinante.

L’opera di Cechov non si può circoscrivere. Ha bisogno d’aria. Anche per esprimere quel che può all’apparenza sembrare angusto, povero, limitato. Laddove pare viva solo la monotonia. O la noia, capace di svilire i più fiduciosi.

E si può mai non tener conto che i personaggi del drammaturgo russo sono fantasmi che fluttuano come meduse e si aggirano alla cieca intorno alle motivazioni dell’esistenza, incapaci di riuscire a trovare un movente, una ragione alla condizione che l’uomo è costretto a vivere?

In questa messa in scena le uniche meduse ideate sono quelle che ad un certo punto, come candelabre, vengono giù dal soffitto e restano lì, penzolanti. Spoglie di significati.

Vite senza vita, i veri personaggi. Proiettati nel miraggio di un poi che non verrà. A Mosca! A Mosca! A Mosca! Cantilenante e morbosa intenzione delle tre sorelle di lasciare le patetica provincia, dove si dimentica tutto ciò che si ha avuto la fortuna di imparare. Ma non sono le uniche a vagare nella labirintica trappola delle ossessioni. Si muovono quasi a vuoto tutti gli altri, tra sogni disillusi e incertezze, mentre il tempo scivola per condurre ognuno nella consapevolezza del fallimento. Concetto che almeno viene fuori nell’elaborazione di Di Palma e del suo staff. Ma a mancare sono la classe e la geniale semplicità pulsante negli allestimenti su Cechov di  Končalovskij e di Tuminas, ai quali abbiamo assistito durante il Napoli Teatro Festival. A mancare è anche lo spirito di fare grandi cose. Di osare. Di non aver paura di affrontare il gigante.

Emerge tuttavia il senso dell’agonia, della passività, della rassegnazione. Così i personaggi restano a levitare inerti, a subire la realtà in un crudo logorio, senza creare evoluzioni. Senza reagire.

Capita ad Andrej (Paolo Serra), a Maša (Gaia Aprea) a Ol’ga (Sabrina Scuccimarra), a Irina (Federica Sandrini), a Solënyj (Paolo Cresta), al barone Tuzenbach (Giacinto Palmarini), a Veršinin (Andrea Renzi), a Čebutykin (Alfonso Postiglione), a Natal’ja Ivànovna o Nataša (Sara Missaglia), a Fëdor (Gabriele Saurio) e agli altri.

Sparisce qui la parte dell’anziana balia Anfisa che si accorpa misteriosamente al personaggio di Ferapònt (Enzo Turrin). Maša diventa isterica, alcolizzata. E triste. Quando lo stesso autore in una lettera indirizzata alla moglie e attrice Ol’ga Knipper, che avrebbe dovuto interpretare la parte della sorella maggiore, raccomanda: “Ohè, bada! Non fare in nessun atto il viso rattristato. Stizzito sì, ma non rattristato. La gente che da tempo porta in sé una pena, e vi si è abituata, fischietta soltanto. O rimane sovrappensiero. Così anche tu resta di frequente sovrappensiero sulla scena, mentre si discorre, capisci?”

E resta Maša inspiegabilmente su una sdraio a dormire in giardino, quasi al termine dell’ultimo atto, per un tempo infinito, e non se ne comprende la ragione. D’un tratto si leva per abbracciare il suo amante Veršinin. I soldati lasciano la provincia, tutto tornerà alla tediosità di sempre. E muore con il barone anche la possibilità per Irina di partire.

Incerto il personaggio di Nataša, causa di una evidente disarmonia tra ruolo, attore e scena. Figura invece ben delineata nell’opera di Cechov e che avrebbe certamente meritato un approfondimento adeguato.

Incomprensibile la trovata delle mantelle - d’un verde definito “acido” dalla costumista Zaira de Vincentiis - con le quali Nataša alla fine copre le spalle delle tre sorelle. Il sintomo della sopraffazione della moglie di Andrej sulle tre donne è ormai chiaro e torna superfluo rinnovarlo in questa scena peraltro assolutamente assente nelle intenzioni dell’autore.

Belle le musiche originali dell’israeliano Ran Bagno, anche se sacrifica pianoforte, violino e arpa volute nel testo, per concentrarsi solo su fisarmonica e uno strumento a fiato.

 

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