“Zombitudine”, la pièce di Timpano e Frosini che resuscita i morti

Dal 3 all’8 febbraio al Piccolo del Bellini di Napoli


Servizio di Marco Catizone

 
Napoli - “L’inferno sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro da riflessi luciferini, viepiù screziato di nebula illusoria, tra conati di realtà deformati dall’ansia perenne, d’esser in ritardo sulla fine annunciata, il redde rationem dell’umanità, il rendez-vous per anime purganti in eterna peana, esergo per umani fuor d’opera divina, schizzati di fango e sangue, come zombies usciti di mortorio; già, proprio zombies, morti-non morti, inumani inumati, smorti e sfilacciati, con le manine forcute a scavar lapidi e vermigli lazzi, di più, proprio vermi e putridume, questo siamo.

Almeno a sentir Daniele Timpano ed Elvira Frosini, corpi in scena inamidati, intirizziti dalla vita in su, in giù, morti che più vivi non si può; una lenta, catatonica, ineluttabile promenade nelle fumisterie dannate dell’umana in-esistenza, condannati alla catena di smontaggio, un pezzo alla volta, un arto alla volta, prima dell’auto-riciclo zombesco, consumisticamente pronti alla pugna, per svenderci e compranrci, una volta di più. Siamo ormai uomini e donne passeggeri di noi stessi, imbarcati, insinuati nell’esistente, progenie lupesca del dio di Wall-street, Wall-mart, another brick in the Wall, che il muro è invero caduto, ma siam sempre più captivi, prigionieri della Guantanamo arancione e cremisi che ci indica il cammino, come tramonto umanitario, o dell’umanità intera, chissà. 
 
Asfissiati dal peso di una società orwelliana di mitopoiesi distorte, cervelli sfatti da un Moloch superno ed ancestrale che tutto fagocita e tutto assimila, quel che resta di noi umani è solo brandello, scarto, cellula dormiente, viva e morta al contempo, Zombitudine che strania e rivolta, perché dalla carne pendula e dai brandelli in-umani forse nasce la rivolta, la rivoluzione: sullo sfondo della nostra personale guerra all’umano, perenne sibilante serpentesca, s’ode un lamento poco articolato come sirena a contraerea; un dio-cannibale dalle gengive disadorne, digrignanti, plasticamente contratte nell’assalto al panem, alla carne tremula, al sangue raffermo, è tutto quello che appare ed appaga, chè ricchi premi e cotillones non ve ne sono più, ci rimane il nudo pasto di nutrirci di scarti per ripartire dal ground zero della nostra rachitica esistenza. Un nudo pasto per vampireschi molluschi dalle guance scavate e defunte, a puntellarsi nel nostro sacello d’ossuta egotimia, stravolti ed ululante alla terra, che zombies ormai siamo e dalla terra veniamo. Amplesso demoniaco di carne e ancora carne, un tanto al pezzo, un occhio alla libbra, un femore come daga, per abbattere mulini, per evadere almeno una volta dai nostri steccati.
 
Zombitudine è spettacolo sublimante, i due copi sul palco s’ammischiano e montano, prendon posizione per la rivolta beckettiana, sempre imminente, sempre rimandata, fino a quando i morti che più smorti non si può dilavano sul palco, invadono gli interstizi, una marcia al rallenty, svilita e vischiosa, quasi sforzata, ad assediare i quasi-vivi, nel perimetro nella morte, perché il mondo non appartiene più ai vivi, ma direttamente agli zombies, ai morti pencolanti e svacantati, alle anime smozzicate e rivoltanti, che sole potranno rivoltarsi e rivoluzionare questa stanca replica che il mondo diuturnamente manda in scena, per il nostro voyeurismo ridondante e costipato, virulento e morboso. Brillano i denti d’avorio, nell’attimo del morso, brillano come braci per rischiarare il nostro fievole buio. Applausi a Timpano e Frosini, piece interessante, di sicuro un ottimo spunto per riflettere sulla nostra non-vita, appesi all’ipertrofia delle nostre invidie limacciose, e desideri scorticati; forse che non ci resti che morire, per apprezzare la vita?

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