“Emigranti” di Slawomir Mrozek - Regia di Lucio Allocca.

Al Theatre de Poche di Napoli dal 20 al 22 febbraio

 

Servizio di Marco Catizone

 

Napoli -  Farsa grottesca, e benemerita, quella del polacco Mrozek, canto di nostos agognato in pelagio ri-flutto, riflusso, si flette qual miraggio a specchio nel requiem frusto per anime soul, figli d’Annibale e del sud che più polare non si puote, saliti, ascesi, ascosi giù al “Nord”, il più profondo, insaccati tesi ad asciugare lacrime ed umidità in fumoso e tubolare sottoscala, per reflusso migratorio di pulcinella marini, animelle disperse per vanagloria, necessiatà o costrizione: in sola parola, Emigranti, a rappresentare sé stessi e poco più, col loro, nostro, piccolo mondo incistato nell’omphalos genetico a far da contorno e fagotto, per una mymesis altra, aliena, imperscrutabile  ed impossibile.   

Captivi i due, Avagliano e Sacco, quasi omonimi degli emigranti incompresi e sacrificati in guisa d’anarchici in quel d’Ammerica nel tempo che fu; l’uno psicopompo, l’altro bruto a tirar carretto; il primo sgasato, liso di giacchetta e di studi umanitari e sociali, occhialino ed amplia fronte; il secondo querulo, destrutturato, sessuomane e vitale, solcato nel viso da signo lineare e vermiglio, retaggio dei lustri popolari e contadini, grinza che non fa una piega e mai farà un Grinzane (ahimè, giammai) per la recherche simil-epistemiologica del co-abitante, co-emigrante, intellettual-pezzente-bohemien (Avagliano), ebbro d’ umana medietà, specchio sbreccato d’un borgesismo negletto e rifiutato, tanfo mitteleuropeo che gongola nell’analisi dell’altro, animale da varietà e diletto da entomologo domenicale, e s’approva nel scialacquar bicchieri e sfumacchiar pipette all’abbisogna, vecchi lazzi da radical-sciocco, ormai disperso nelle budella nerofumo di tubi fecali della metropoli nordica ed aliena, alienato a sua volta, in compagnia di colui che in terra natia sarebbe stato a sua volta un alieno, al minimo un barbaro.
 
Come graminacee made in sud, in cerca dell’ultimo raggio sull’ultima ruota del carro da giocare a bussolotto, migranti primitivi, lacerati dall’humus d’alta quota, dequotati a cocchi, bacilli, baccelli d’intestini inverecondi, estratti dalla nuda terra come parto ferale, lacerti estrapolati per innesto impossibile, l’uno e l’altro, rovesciati come calzoni a sbuffo, ante e retro di moneta che ha perso il conio, sul mercato dei rimpianti appassionati, del rimorso esiziale, umani troppo umani, cabaret in chiaroscuro, dove salvezza non v’è, se non nell’emulazione: da soma per l’operaio sanguigno e verace (Sacco), d’un sudaticcio bestiale, tensione muscolare verso una fuga a capicollo, al termine d’una notte arrendevole, solo accumulo-apprensione, di quattrini, mattoni, umori e tremori; da auto-commiserazione per l’intellettuale, grottesca maschera grondante di  fumus libertatis, coartazione a ripeter errori e stonature, voluttà e rappresentazione, ché dell’essere schiavi siam stanchi, in primis noi sudisti scarni e sfatti e sfiduciati. E dunque scappiamo, storniamo, sbandiamo, E-mi-gria-mo!

MrKozek, ottimo autore satirico, anti-socialista (in senso reale), ahinoi passato a peggior vita, denuda il pelo dei due omuncoli in scena, lasciando desnudo nell’occhio di bove il migrante-uomo a far da speculum per homines prosaici e crassi, giacchè l’unica via, se non per libertà, almeno sopravvivenza, è nell’iper-testualità dello spettacolo, nella fuga impossibile dal proprio vellicolo, nell’ allungo iper-cinetico che del perdente, lungi dal farne un vincente, ne rende almeno il lampo d’insoddisfazione, perché nella mancanza (questa si vitale) di rassegnazione risiede la gemma che dalle radici si espande, emigrante, al cospetto dell’estraneo mondo. Molto bravi i due attori, asciutta la regia di Lucio Allocca, al Theatre de Poche di sicuro cova, lucida e sfavilla, nuova perla.  Applausi.

 

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