Un’esplorazione spaventosa degli istituti carcerari al Sud Italia immagine di una condizione di prigionia universale
Il
Colloquio, progetto e regia di Eduardo Di Pietro
Servizio
di Andrea Fiorillo
Napoli
- È stato in scena domenica 12 Luglio, nel
Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli, in occasione del Napoli
Teatro Festival, Il Colloquio, progetto
e regia di Eduardo
Di Pietro, con Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino. Ispirato
dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti presso il
carcere di Poggioreale a Napoli, è la storia di tre donne, di cui una incinta, e della loro attesa.
Di legami tagliati ma voluti, di esistenze che si sovrappongono tra il dentro
ed il fuori, di una detenzione che è una fatalità vicina, come la morte, che
deturpa l’animo di chi resta.
Abbiamo
rivolto alcune domande al regista Eduardo Di Pietro:
Il
Colloquio è stato vincitore del Premio Scenario Periferie 2019. Da dove nasce l’idea di dare voce a chi attende di incontrare in carcere
i propri parenti detenuti?
L’idea nasce dall’inaspettato
potenziale teatrale della situazione: persone costrette in una condizione di
attesa, con dei conflitti stratificati e diffusi, al limite dell’ignoto,
in un equilibrio decisamente precario. L’innesco è stato
Il loro Natale, un pregevole documentario di Gaetano Di Vaio incentrato sulle
donne parenti di detenuti e sul rituale settimanale di accesso al carcere di
Poggioreale: fino a qualche anno fa la procedura costituiva un vero e proprio
supplizio (istituzionale) per gli utenti, costretti a mettersi in coda all’addiaccio, all’alba,
senza alcuna forma di tutela o di garanzia per l’accesso.
Oggi il servizio è stato fortunatamente migliorato, ma l’aspetto
di cronaca ci è servito come punto di partenza per delineare un’esplorazione
spaventosa degli istituti carcerari al Sud Italia prima, e una condizione di
prigionia universale poi. La sensibilità degli attori Renato Bisogni,
Alessandro Errico, Marco Montecatino e dell’aiuto
regia Cecilia Lupoli sono stati fondamentali per il tipo di lavoro condotto,
attraverso documentazione, interviste e improvvisazioni.
Un
punto di vista nuovo quindi, una necessità scenica che racconta un dramma
vissuto da chi è pur sempre vittima delle scelte sbagliate dell’altro
e di un sistema assurdo?
L’assurdità del
sistema è tragicamente nota, con tutti gli annosi problemi, inefficienze e
vergogne che ormai ci paiono inevitabili – e questa rassegnazione di comodo è la
più grande delle responsabilità di ognuno di noi. Approfondendo il discorso, l’istituzione carceraria come pena e il reinserimento
sociale dei detenuti fanno acqua da tutte le parti, non stanno in piedi: con
Sorvegliare e punire Foucault ha radiografato l’istituto
di pena fino ai meandri più profondi della nostra mentalità e certamente in
quest’ambito non possiamo portare alcuna “novità”. Ciò che rileviamo e
che tentiamo di restituire è effettivamente la vertiginosa complessità del
reale, un dedalo di dinamiche relazionali e sociali per cui non esistono
vittime e carnefici tout court. E il fatto che questa complessità non va
fuggita.
Uomini
e donne, soprattutto, “disposti
lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso l’altrove: un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e,
per contro, una vita altra, sognata, necessaria, negata”. Queste le tue parole:
una mancanza che diventa azione scenica, ed il teatro come parola nel silenzio.
È così?
Queste
coordinate sono state una bussola nel nostro processo creativo. Abbiamo avuto
da subito la necessità di lavorare sulla sospensione – misurandoci con l’attesa, un dispositivo teatrale talvolta abusato, – con
la coercizione, con il senso del vuoto. Abbiamo cercato accadimenti, rapporti e
pretesti perchéé tra i personaggi ci fosse
qualche scintilla, qualche conflitto che veicolasse le opposizioni e le lotte
profonde (contro il carcere, lo Stato, la vita) che riguardano noi tutti, in
maniera assoluta, e che in condizioni di marginalità vengono nitidamente a
galla.
La
funzione altamente sociale del Collettivo LunAzione di cui fai parte è chiaramente
presente in questo testo. Cosa ti aspetti dal pubblico in termini di reazione
critica?
Ora
che abbiamo ripreso il lavoro dopo il lockdown, questa risposta non mi appare
semplice come forse sarebbe stata in passato: rivedendo Il Colloquio a distanza
di qualche mese, seppure sia uno spettacolo ancora giovane, ho scoperto io
stesso una commistione di significati che si sovrappongono, a vari livelli di
lettura. Questo trovo sia un merito dello spettacolo inteso come organismo, su
cui ho avuto un ruolo ben relativo. Oltre a una mera dimensione informativa – che
trovo un grado molto elementare del teatro, – auspichiamo che lo spettatore
esca ferito dall’evento, di quelle
ferite che ricordi con dolcezza a distanza di tempo, a cui ti affezioni. E che
intuisca quel senso di fragilità squisitamente umana che ci ha inquietato nel
corso delle ricerche: una fragilità comune a noi tutti e di cui possiamo
(dobbiamo) per questo anche ridere.
Dopo
il NapoliTeatroFestival, sarete al Bellini, quando?
Saremo
al Teatro Bellini dal 26 al 29 novembre. Il Colloquio è tra l’altro
una produzione dello stesso Teatro Bellini, che ringraziamo. Siamo lusingati poiché ci esibiremo in sala grande, appositamente ripensata in
maniera audace e creativa per una ripresa post Covid: il Piano Be! Stimiamo
molto il lavoro dei fratelli Russo, poiché riescono
a offrire alla città una proposta giovane, dinamica e di indubbia qualità e
questa ne è la dimostrazione. Inoltre, Daniele ha supportato il nostro lavoro
fin dagli inizi, con premura e sensibilità.
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