“Il Barone di Munchausen” - regia di Paolo Cresta


Al Teatro Il Pozzo e il Pendolo di Napoli , dal 22 novembre all’8 dicembre

 Servizio di Marco Catizone

 
Napoli – L'arte di vivere è l'arte di saper credere alle menzogne” (C. Pavese); e di ciarle, arabeschi e menzogne il Barone, al secolo Karl Friedrich Hieronymus von Munchausen, nutriva il conto, come famelico gargantua, per gentiluomi e dame di corte, regnanti e ufficiali e soldataglia minuta: res gestae straordinarie per uomo alquanto ordinario, figlio del suo tempo, teutonico di carriera militare, al servizio degli zar di Russia, gran ciambellano di sé stesso, ammiratore di dame e regine, burlesco fino al punto da cavarsi d’impaccio, e sabbioso abbraccio, tirandosi su con tutta la cavalcatura, e con sola forza di braccio e codino; oppure vulcanico e focoso, tanto da cavalcar palla di cannone, andata e ritorno,  o imbrigliar folaghe per svolazzar di sollazzo, fin sull’uscio della Luna, cadendo nell’Etna per disguido in volo; indi viaggiando per cirrocumuli a cavallo di pallone fatto di mutande e reggipoppe muliebri, cuciti all’abbisogna; oppure incrociando destino,  lame e destrieri con Don Chisciotte in persona (ca va sans dire) , qual degno compare di bevute di Cervantes e Rablais, a stretto giro consiglier di Luciano di Samosata, sulla scia d’uno Swift innamorato di sé stesso, con disincanto e logorroica bramosia d’avventure e considerazione, tanto da divenire novecentesca sindrome di disturbi narcisistici di psiche e volontà (vedasi alla voce “sindrome di”); Munchausen è sublime, letterario,  teatrale sinonimo di viepiù prosaico “cazzaro” all’ennesima potenza (di fuoco, of course).

Una silloge di iperboli e millanterie da mettere in crisi il più arguto dei saltimbanchi, sfidando la sorte come un novello Odisseo, sì da meritare un libro intero come sestante, per raccapezzarvisi al minimo, cercando zattera di raziocinio nel tourbillon di nani e giganti, lunatici e fiere, reali e sultani, raccolto più che scritto da tale Rudolph Raspe, erudito ed eclettico quanto abbasta per trasformare il Barone in eponimo letterario; e quanta fortuna per Munchausen, quanti i sunti, le rese, i conti ed i metraggi, fino a tutto il Novecento, fino al Terry Gillian dei Python  che al Nostro dedicò pellicola fantasy (e teatrale) nell’ ’88, e fino al Il Pozzo e il Pendolo che del Barone e dei suoi miti fece piece, riprendendo di base proprio il lungometraggio di Gillian, ove il Barone (Nico Ciliberti) interrompe baldanzoso la prosa di scena, sparigliando le carte del trio in assi (Andrea de Rosa, Antonio Perna, Lucia Rocco), paonazzo e catarroso, a rimembrare, dal vero, la menzogna imbellettata, per resa “sincera” di ciò che fu alla corte dei Turchi, nel bel mezzo di brughiera, tra le gelide distese di Russia e mezza Europa, fino alle trame della Luna, ai superni e ai mezzani, fino all’ultima lacrima versata per magnifica impostura, d’uomo semplice ed ordinario (si scopre poi essere Orlando, un impiegato-sartino a mistificare la menzogna) che per mestia e soliloquio divenne eroe e maschera del suo cunto personale, cavaliere di gran balle, grottesco omino disperso nell’ ultima fantasia possibile.

Bravi gli attori, coraggiosa la scelta di portare in scena le avventure del Munchausen, invero più adatte al racconto cartaceo, che non alla nudità del palcoscenico; resa ad incastro, ritmo alto, eppure qualcosa manca: le folaghe del Barone rimangono zavorrate, il volo è radente, lo spettatore stancamente trascinato per odissee e avventure al limite della follia; son lontani i tempi dei Lumi, dove un Cagliostro si spacciava per stregone ed un Casanova per impudente latin lover, il Barone resta confinato nel suo mito, buono adesso come favola per piccini (ai grandi ci pensa il Renzi di turno), semprechè non risultino ormai storditi a morte dal grufolare distonico ed irritante d’una logorroica e disturbante Peppapig.

                                                                                                                                

 

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