Al Diana arriva il Caffè Chantant con Serena Autieri nei panni di Pulcinella e di Elvira Donnarumma

“La sciantosa, ho scelto un nome eccentrico” fino al 16 novembre

Servizio di Anita Curci

Napoli – S’intratterrà fino a domenica 16 dicembre, sul palcoscenico del Diana, Serena Autieri nello spettacolo scritto da Vincenzo Incenzo per la regia di Gino Landi, “La sciantosa, ho scelto un nome eccentrico”.
Già la cantante giorni fa aveva fatto uno spumeggiante esordio presentandosi in abiti di tardo ‘800 alla conferenza stampa al Salone Margherita, passando per il lungomare e i vicoli della città, dove la gente l’aveva potuta acclamare con ammirazione.
Lo spettacolo-varietà, omaggio alla tradizione classica napoletana e alla indimenticabile, irraggiungibile, Elvira Donnarumma nata nel 1883 e morta per malattia nel 1933, è arrivato al pubblico sul palcoscenico del teatro di via Luca Giordano, attraverso canzoni e qualche macchietta, come un affresco approssimativo di quella che è stata la cultura canora partenopea tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo.
Nei panni di Pulcinella, Serena Autieri, ha simboleggiato la Napoli gioiosa e disperata, calma come il mare blu che la bagna, incandescente come il vulcano che la scruta dall’alto ogni giorno severo, pericoloso. Poi la trasformazione, la maschera lascia il posto alla sciantosa. E alla mossa.
Tutto elaborato con ottime intenzioni. E il pubblico, che se n’è accorto, ha applaudito più volte con entusiasmo la Autieri per la sua voce chiara e intonata e per la performance briosa.
Sul palco, vivace e sorprendente grazie alle continue proiezioni che hanno rievocato stralci di storia e di musica, oltre all’ eccentrico ballerino e mimo Alessandro Urso, anche l’orchestra  con Alberto Pizzo al pianoforte, Luca Natale alla chitarra e mandolino, Roberto Giangrande al contrabbasso, Marco Spedaliere ai fiati.
“E’ uno spettacolo che aspettavo da tempo” afferma la cantante, natia di Soccavo, “Tra una rima citata e una lacrima intendo riportare al pubblico quelle radici poetiche e melodiche ottocentesche e quei profumi arabi, saraceni e americani che Napoli ha assorbito col passare degli anni.”
E anche senza grammofono a tromba, abbiamo udito “Palomba ‘e notte” del 1907 di Di Giacomo-Buongiovanni; “Fenesta vascia” di Genoino- Cottrau del 1825; “Santa Lucia luntana” di E.A. Mario del 1919; “Comme facette mammeta” di Gambardella- Capaldo del 1906, e molte altre melodie-capolavori che hanno illuminato il teatro.
Per far rivivere le vicende - pure un lasso di esse - del Caffè Chantant o del romanticismo e del pathos che le radici di questa città si portano dietro, non possono bastare un’ora e mezza di suoni e qualche citazione (tanto è durato lo show), non può bastare un blando approfondimento.
Nonostante questo, l’effervescenza della pièce-chantant ha esaltato la platea. E, alla fine, accontentare il pubblico è ciò che conta davvero.
Pensavo, seduta sulla mia comoda poltrona del Diana, mentre assistevo alla performance: “Fa piacere apprendere che ad un certo punto della vita ogni tanto qualcuno ricorda di essere napoletano - nonostante l’ostinato e minuzioso impegno nell’imitare la timbrica vocale del nord, come se l’accento del sud esprimesse vergogna… “Il mio accento si deve sentire!”, cantava con giusta ragione a San Remo uno straordinario ragazzino -  e si accorge della grande potenzialità artistica di questa città così disperatamente colta, così disperatamente fantasma quando non fa comodo.”
Tutto sommato “tra una lacrima e una rima” abbiamo trascorso una serata piacevole.


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