“Le cinque rose di Jennifer”, di Annibale Ruccello, con Daniele Russo, Sergio del Prete.
Al Teatro Bellini di Napoli dal 26 dicembre al 9 gennaio.
Servizio di Marco Catizone
Animalità da palco, quella di Jennifer-Russo; da preservare, incendiare di linfe novelle, smussando gli angoli di un sens en travestì disperso in rivoli quotidiani, dietro lemuri a trillo evocato, in quieta e nevrotica solitudine da bordelli vacui, svacantati di corpi, nel drama sospeso di un Godot che mai occuperà la sua ombra, palesandosi al rito, all’agnizione sospesa: “Franco!” E par di compenetrare il passo, sentirne l’effluvio, carpirne il nesso, eppure; eppure sull’asse balla solinga l’inquieta Jennifer, avvolta nelle sue spine, chè le rose son spurie ormai, disperse in cenere vermiglia, in rivoli di vento.
Linfa plebea è Jennifer, e Russo ne mostra il cuore desnudo, l’ esotico e dramatico vezzo, per belletti di scena scevri da finzioni sovrastrutturali, col testo di Ruccello che respira nuova vita, calata dal basso, anima mundi d’un partenopeismo che allora era indi da rinnovare, con partogenesi drammaturgica in salsa grotesque, vivida ed incendiaria; ironia sospesa sulle miserie dei basoli, mutazioni simbiotiche d’identità irredente, tra un femminiello/travestisto vestale alla cornetta, ed i suoi spasmi posticci in agnizone perenne ( quel “Franco”, dove sei?), una virgo di solitudo, e mai di verga, giammai beata.
Daniele Russo ricrea la sua “Ifigenia-Jennifer”, una vestale sacrificata sui lari d’un consumismo cannibalico, come carne tremula, e disseccata, solcata da trucchi di scena e canti erranti (via etere, su onde radio, radioattività sommessa) di divine muse del Pop(ulismo) canoro, a scorgere l’abisso elicoidale dell’ossessione, cedendo di schianto, un colpo esploso, bossolo ferraginoso, come lacrima di sangue a solcare il viso d’una maschera impura, eppur divina, come sibilla e pizia, per proscenio a vaticinio, per canto vitale distorto a cupa, rua e vicaria e in precipizio esiziale.
Ruccello eradicava i suoi personaggi, la fenomenologia della sua personale recherche voyeuristica, si scontrava con la poetica delle sue rappresentazioni; il Vero Lume a fugare le surrettizie celebrazioni di Neapoli - la Sua Napoli - dedita ad un’auto-rappresentazione sovente stucchevole, perché spersonalizzata, in guisa di costume, a prescindere dalla teatralità sociale d’un palcoscenico adagiato sulle lepidezze d’una terra arcana ed incantata, in loop a strascico. Incantata a malia, perché ritualizzata ad libitum, sfruttata come corpo e merce, kitsch artefatto di luccichii ingolfati e salmastri, travestitismo irrituale, ormai sfatto; al pulsare ritmico d’un neon ideologico, che si riversa, lunare, sul lume (non eterno, semmai etereo) d’un decadentismo fallace, e non più scenico. Semmai osceno, perché non più autentico.
Merito e plauso al taglio netto, asciutto,
della regia di Gabriele Russo e ad alla recitazione del germano Daniele, che
mantiene la livella ben alta nel delineare i contorni di drammaturgie
ruccellesche ormai classiche, e come tali da maneggiare senza formalismo vacuo,
bensì con cura. Moltissima cura.
Applausi, chapeau, sipario.
“Le Cinque Rose di Jennifer” di Annibale Ruccello
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
regia Gabriele Russo
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