Con “Mastro don Gesualdo” al Bellini di Napoli un carismatico Ernico Guarneri nella parte del muratore Motta
Dalla rielaborazione di Micaela Miano,
l’opera di Verga in scena dal 20 al 25 gennaio
Servizio di Anita Curci
Napoli
– Allestimento difficile, anche perché ha a che fare con un romanzo. E nemmeno
con un romanzo semplice. Giovanni Verga lo pubblicò nel 1889 per illustrare una
realtà carica di messaggi sociali e umani tuttora validi.
“Mastro
don Gesualdo” nella rielaborazione di Micaela Miano resterà sul palcoscenico
del teatro Bellini fino al 25 gennaio e vede nel ruolo del ricco muratore di
Vizzini, il paesino siciliano dove è ambientato il racconto, un filosofico Ernico
Guarneri che si ritrova a indossare i panni che furono di un catanese come lui,
Turi Ferro, nella versione teatrale del 1967 e di Ernico Maria Salerno in una
riduzione televisiva in sei puntate del 1964.
L’impronta
energica di Ferro, a cui è dedicata la messa in scena, pare inevitabile, quasi
fisiologica, dato l’impegno profuso per una vita intorno al teatro siciliano.
E’ dunque il figlio Guglielmo ad occuparsi della regia del testo rielaborato
dalla moglie Micaela. E tra gli interpreti anche Francesca, nelle vesti di una
sublime Bianca Trao, nata da Turi Ferro (scomparso nel maggio 2001) e da sua
moglie, e compagna di scena, Ida Carrara.
“Stamm
mmano all’arte” si direbbe a Napoli, visto che ci troviamo di fronte a esperti
di drammaturgia contemporanea che prendono in ausilio tecniche di respiro
europeo e che però non perdono di vista i valori del classico verghiano seppur
riattualizzato.
A
essere rimarcato è il “concetto di roba”, il senso del cinico materialismo,
dove furoreggiano la percezione dell’ego e il criterio della convenienza. Tutto
ciò dà anima all’opera, in questo ciclo dei vinti, quando non c’è più tempo per
i sentimenti se non, forse, in punto di morte. E nemmeno, se poi Gesualdo muore
solo, come solo è vissuto e come tutti gli altri personaggi sono destinati, in
maniera rassegnata, ad esistere.
E
infatti più di sentimento si dovrebbe parlare di rimorso per il Mastro che in
tutta la vita ha lavorato duro per poter accumulare beni ed essere poi odiato dalla
famiglia, umiliato dalla nobiltà con la quale inevitabilmente viene a contatto.
O vuole di proposito venire a contatto per l’ambizione di diventare un “don”,
sposando la decaduta nobile Bianca e sacrificando gli affetti, la donna che
ama, la obbediente serva Diodata che gli ha dato due figli finiti in
orfanotrofio perché il “padrone” non dichiara come suoi e che, però, ricorderà
in punto di morte di fronte alla figlia Isabella.
E da
lì parte l’allestimento di Guglielmo Turi, dal letto di morte del muratore
dalle mani callose e la pelle dura di chi ha sudato per poter, tra dispiaceri,
sacrifici e offese, mettere su tutta la sua “roba”.
“Ne
faccio una storia a ritroso, che inizia tre ore prima della morte di don
Gesualdo, con lui a letto, nella stanza dalle mura spesse e soffocanti della
figlia a Palermo. È uno senza Dio e senza Stato, che ricorda e rivive",
spiega il regista.
E
rivive Gesualdo nella sua
infanzia senza affetto, senza calore umano, intorno all’ossessività del
possesso, all’indifferente bestialità della Sicilia baronale preunitaria, e di
tutti quelli che approfittano della sua ricchezza e della sua bontà. Una
vita sprecata a rompersi la schiena per poi procurarsi un male implacabile allo
stomaco che lo consumerà lentamente. L’aridità di cui si circonda, infatti, – e
da qui l’intento di Verga in quel suo ciclo che prevedeva cinque romanzi e non
due soltanto – lo schiaccerà decretandolo un vinto.
Tutte
le intenzioni dello scrittore siciliano, che a tale lavoro dedicò sette lunghi
anni di preparazione e bozze, vengono trasposte sulla scena in maniera efficace
e secondo una umanizzazione che vuole Gesualdo desideroso di riscatto e non
solo accumulatore.
Gigantesca
l’interpretazione di Guarneri che fa sua in maniera straordinaria la
complessità interiore del manovale di Vizzini, le sue amarezze, il fallimento e
il deserto che gli è intorno, reso bene anche dalle scene di Salvo Manciagli,
nude, cupe, armonizzate da proiezioni capaci di contestualizzare i vari momenti
dell’opera pure grazie all’ausilio di pannelli scorrevoli. A restare fisso in
scena è il letto del moribondo, probabilmente simbolo dell’estrema solitudine
del Mastro che alla fine, dopo l’ultimo suo respiro, sarà deriso dal
maggiordomo, personaggio emblema del disprezzo che Gesualdo ha attirato a sé persino
dalla gente della propria classe sociale.
Sul
palco, insieme a Enrico Guarneri e a Francesca Ferro, Ileana Rigano, Rosario
Minardi, Vincenzo Volo, R L’ososario Marco Amato, Pietro Barbaro, Giovanna
Centamore, Nadia De Luca, Gianni Fontanarosa, Maddalena Longo Chiavaro.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Commenti
Posta un commento