America di Franz Kafka regia di Maurizio Scaparro
Napoli,
Teatro Nuovo – dal 14 al 18 dicembre 2015
In scena il romanzo incompiuto, il più ironico e meno pessimistico
dello scrittore praghese, dalla visionaria capacità di cogliere ombre e
contraddizioni future
Sarà il Teatro Nuovo
di Napoli a ospitare, mercoledì 14 gennaio 2015 alle ore 21.00 (repliche
fino a domenica 18) la prima tappa teatrale dello spettacolo Amerika di Franz Kafka, nella
traduzione e l’adattamento di Fausto Malcovati, con Giovanni Anzaldo, Ugo Maria
Morosi, Carla Ferraro, e con Giovanni Serratore, Fulvio Barigelli, Matteo
Mauriello, per la regia di Maurizio Scaparro.
Lo spettacolo è
proposto in questa stagione, dopo il fortunato debutto al Napoli Teatro Festival Italia, anche in occasione del semestre di
Presidenza Italiana dell’Unione Europea, per richiamare l’attenzione su
argomenti sempre più attuali quali l’emarginazione, la diversità e la
condizione dell’emigrante, in un mondo dove i flussi migratori sono sempre più
massicci e spesso drammatici, dove l’intolleranza affiora, sempre più dura,
accanto all’accettazione.
Presentato da
Compagnia Gli Ipocriti in collaborazione con Fondazione Teatro della Pergola di
Firenze, l’allestimento si avvale delle musiche ispirate alla cultura yiddish e
al jazz nero di Scott Joplin, adattate da Alessandro Panatteri ed eseguite dal
vivo da Alessandro Panetteri, Andy Bartolucci, Simone Salza. Le scene sono a
cura di Emanuele Luzzati riprese da Francesco Bottai, i costumi di Lorenzo
Cutuli, i movimenti coreografici di Carla Ferraro.
Amerika
ripercorre la vicenda dell’emigrante Karl Rossmann, le tribolazioni del giovane
uomo-cavallo (Ross – Man) in un’America che rivela, già nella visione
fantastica eppure sorprendentemente profetica di Kafka, i sui mali, le sue
contraddizioni, ma anche la sua dirompente vitalità.
“In un’Europa dove
flussi migratori sono sempre più massicci e spesso drammatici - rileva Maurizio
Scaparro - ci troviamo, ormai da anni, a riflettere sulle nostre origini, sulle
nostre storie, sulle nostre contraddizioni, ma fortunatamente anche sulla
nostra dirompente vitalità.”
La messa in scena, che
ebbe nel 2000 una prima fortunata edizione, racconta, attraverso vari quadri, la
storia dell’emigrante, del suo viaggio nel Nuovo Mondo, della sua vita errante
in cerca di un benessere che sembra sempre a portata di mano, ma che rimane inafferrabile.
Karl Rossmann è
costretto dai suoi genitori ad emigrare da Praga in America, per sfuggire allo
scandalo provocato dal fatto che era stato sedotto da una donna più grande di
lui, la cameriera di casa, successivamente rimasta incinta. Il giovane Karl
s’imbarca così sulla prima nave diretta a New York.
L’Amerika per lui sarà un mondo ora buffo
ora tragico, ricco d'incontri e scoperte: lo scontro tra due continenti, e due
maniere diverse di vedere il mondo.
«Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in
America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva
avuto un figlio da lui, entrò con la nave a velocità ridotta nel porto di New
York, vide la Statua della Libertà, che già stava contemplando da tempo, come
immersa in una luce d'un tratto più intensa. Il braccio con la spada sembrava
essersi appena alzato, e attorno alla sua figura spiravano liberi i venti»
Così ha inizio l’incompiuto romanzo Amerika di Franz Kafka scritto giusto
cento anni fa, tra il 1911 e il 1914, e pubblicato postumo nel 1927.
Karl Rossmann, giovane ebreo europeo, viene inviato in
America come un pacco postale per sfuggire ad uno scandalo che lo vede
coinvolto con una domestica; deve raggiungere lo zio Jacob, un autentico “zio
d’America” affinché gli trovi un lavoro e una sistemazione. Lo spettacolo,
diretto da Maurizio Scaparro (che già nel 2000 aveva avuto una prima fortunata
edizione), racconta, attraverso vari quadri, la storia di un ragazzo boemo che
va in America, incontra un fuochista tedesco, fa un pezzo di strada con un
disoccupato irlandese e uno francese, ha come compagno di lavoro un ragazzo
italiano.
Nell’adattamento di Fausto Malcovati e con la
complicità della musica jazz di Scott Joplin, Scaparro ripercorre così la
storia e le tribolazioni dell’emigrante Rossmann, del suo viaggio nel Nuovo
Mondo, della sua vita errante in cerca di un benessere che sembra sempre a
portata di mano ma che rimane inafferrabile (il sogno americano?).
L’America, nella visione fantastica ma
sorprendentemente profetica di Kafka, non necessariamente deve avere a che fare
con l’America reale, tuttavia ne rivela già i suoi mali, le sue contraddizioni,
ma anche la sua dirompente vitalità.
Lo spettacolo viene proposto in questa stagione ed è
stato presentato con grande successo al Napoli
Teatro Festival Italia anche in occasione del semestre di Presidenza
Italiana dell’Unione Europea, per richiamare l’attenzione su argomenti sempre
più attuali quali l’emarginazione, la diversità e la condizione dell’emigrante
in un mondo dove i flussi migratori sono sempre più massicci e spesso
drammatici, dove l’intolleranza affiora, sempre più dura, accanto
all’accettazione.
Note
di regia di Maurizio Scaparro:
Kafka,
Scaparro e l'Europa delle diversità a cura di Fausto Malcovati
Bisognerà pur scrivere, un giorno o l’altro, la
storia delle riduzione teatrali a cui Maurizio Scaparro ha messo mano: tutte
singolari, riuscite, attualissime. È certo il caso di Amerika, a cui ho
cominciato a lavorare con Maurizio nella prima edizione e che rinasce oggi alla
vigilia della Presidenza Italiana dell'Unione Europea, mentre per anni America
ed Europa si sono trovate a riflettere, anche inutilmente, sulle proprie
origini, sulla propria storia, sui propri malesseri. Mentre lavoravo con
Maurizio mi venivano in mente almeno altri due titoli di suoi spettacoli, che
qui vanno comunque ricordati: Don
Chisciotte e Memorie di Adriano.
Don Chisciotte aveva come sottotitolo Frammenti di un discorso teatrale, (che mi serve per proseguire il
mio discorso). Si, anche Amerika
avrebbe potuto avere lo stesso sottotitolo: anche perché il romanzo stesso di
Kafka non è compiuto, è una serie di capitoli, di frammenti. E questo credo sia
stato uno dei motivi che ha attirato Maurizio.
È curioso osservare come l’occhio e l’orecchio di
Maurizio lavorano di fronte a un testo: curioso soprattutto per uno come me,
che della lettura ha fatto un mestiere, e che ritiene (almeno fino all’incontro
con Maurizio) di averlo svolto con soddisfazione. Maurizio mi ha insegnato
molte cose che mi hanno inizialmente del tutto spiazzato.
Il primo livello, quello iniziale, di base, mi è
abbastanza familiare: si tratta di decidere quello che si vuole far dire oggi a
un dato testo. E questo Maurizio lo ha chiarissimo fin dai primi passi. È
lapidario nel mettere a fuoco le linee su cui vuole orientare lo spettacolo.
Qui, nella nostra Amerika, ce n’erano
tre, nate, credo, contemporaneamente nel vulcanico cervello di Maurizio.
Anzitutto Amerika
è un testo visionario: Kafka, come si sa, non è mai stato in America, dunque
tutto quello che dell’America vede, racconta, descrive è tutto frutto della sua
fantasia, a cominciare dalla spada che la Statua della Libertà brandisce nella
prima pagina del romanzo e che, come si sa, non esiste. Prima linea: l’America
come un grande sogno kafkiano, come l’allegoria di un mondo che non necessariamente
deve avere a che fare con l’America reale.
Seconda linea, legata in modo indissolubile alla
prima a quella visionaria: l’emarginazione, la diversità, la condizione
dell’emigrante. Maurizio me l’ha subito posta di fronte come chiave dello
spettacolo all'inizio del nostro lavoro. E ancora di più oggi, in un’Europa
dove i flussi migratori sono sempre più massicci e spesso drammatici, dove
l’intolleranza affiora sempre più dura accanto all’accettazione, ecco uno
spettacolo dove un ragazzo boemo va in America, incontra un fuochista tedesco,
fa un pezzo di strada con un disoccupato irlandese e uno francese, ha come
compagno di lavoro un ragazzo italiano. Maurizio teneva molto a questa linea,
voleva addirittura che ogni personaggio dicesse qualcosa nella sua lingua
(anzitutto, il tedesco di Karl, ma anche il francese, l’inglese e l'italiano);
voleva che questa sua America fosse una sorta di Torre di Babele, che è poi la
direzione verso cui si è mosso.
La terza linea, la più sorprendente, quella in cui
mi trovavo meno a mio agio, è quella musicale: qui Maurizio ha sfoderato tutto
il suo istinto teatrale, il suo infallibile fiuto da uomo del palcoscenico.
Nella sua prassi registica, credo, c’è un’incessante koinè di linguaggi (spaziale e scenografico, gestuale e vocale,
musicale), ciascuno dei quali non può fare a meno dell’altro, ciascuno dei
quali condiziona e stimola l’altro. Mentre leggeva le pagine di Amerika, nel suo cervello pullulavano le
associazioni musicali, gli si disegnavano continue proposte per una possibile
colonna musicale. Di fronte alla mia stupefatta reticenza professorale, con una
sicurezza un po’ divertita e perfino un po’ spudorata, mi diceva: qui penso a
un pezzo di rag – time, qui ci vuole assolutamente una vecchia canzone boema,
qui bisogna trovare una nenia ebraica, qui invece una marcia militare. In un
primo momento ho pensato: ma questa è pura follia, come si può unire il cupo
discorso kafkiano, tutto centrato sulla sopraffazione e sulla frustrazione, con
il rag – time?
Invece, nonostante le mie iniziali perplessità (i
salti nel buio, nella vita come nel lavoro, mi hanno fatto sempre una gran
paura), mi son reso conto che Maurizio aveva ragione, che l’elemento musicale
doveva esserci, che questa terza linea doveva mescolarsi alle altre due, la
visionaria e la sociale: diventava anzi un elemento indispensabile al
collegamento, alla mediazione.
Vorrei aggiungere un’altra nota al metodo di lavoro
di Maurizio: la suggestione che su di lui esercita la parola. Come già nelle
precedenti esperienze di riduzioni teatrali di testi narrativi, Maurizio vuole
nei confronti dell’originale massimo rigore e rispetto. Non si riscrive Kafka,
non si inventano battute diverse da quelle esistenti: dove c’è materiale
dialogico dell’autore, lo si deve conservare e utilizzare al massimo.
E tuttavia per la parola dell’autore Maurizio ha una
sensibilità tutta speciale: ci sono frasi, battute che afferra, lascia
risuonare dentro e su cui poi costruisce una proposta di lettura del tutto
originale. Mi è capitato molte volte, nel corso del lavoro insieme, di sentirmi
dire: guarda che Karl a tale pagina dice questo, tienine conto, oppure non
dimenticare che la cuoca a pagina tale guarda una fotografia, è importante.
Così Maurizio mi ha condotto per mano, nel suo modo
apparentemente distratto, casuale, in realtà assolutamente rigoroso e coerente,
attraverso suggestioni che mescolano il testo kafkiano con la sua sensibilità e
responsabilità registica, verso scelte precise, verso lo spettacolo che si
costruiva sul palcoscenico del Piccolo Eliseo e che ora nel 2014 (a cento anni
esatti dalla nascita di questo testo incompiuto) riparte da Napoli per l'Italia
e l'Europa.
Parlavo prima di koinè
di linguaggi: prima ancora che io mettessi mano ai primi abbozzi di copione,
già Maurizio sapeva come voleva che cominciasse lo spettacolo e mi descriveva
lo stupore di Karl di fronte alla Statua della Libertà, mi faceva sentire gli
odori e gli umori del porto di New York, mi guidava all’interno della nave
piena di emigranti in cui si perde Karl, vedeva sbucare da una porta scura il
rozzo fuochista dall’accento tedesco. E mi raccomandava il “tema” della
fotografia, che è poi quello del ricordo, del passato boemo ed ebraico del
protagonista, il “tema” del teatro, presente in Brunelda e in Oklahoma, il
“tema” della scrivania americana, allusione, con le sue misteriose manovelle, i
suoi infiniti scomparti, a tutti gli attuali marchingegni della nuova
tecnologia che avanza, altrettanto misteriosi (per me, almeno), e infine il
“tema” del lungo viaggio verso Oklahoma, attraverso la grande America.
Come un veggente, che coglie con la sola imposizione
delle mani il senso di un libro, così Maurizio ha visto, senza il bisogno di
studi filologici, chiose, note e ricerche, quello che voleva far uscire dal
testo. Da Amerika è uscito un
discorso in cui Maurizio crede, e di cui abbiamo bisogno: un discorso contro
tutte le discriminazioni, contro tutti i razzismi, contro tutte le violenze e
gli ottusi autoritarismi.
Commenti
Posta un commento