VENDERE IL CORPO PER SALVARSI L’ANIMA

PATRIA PUTTANA  testi e regia di Enzo Moscato
Con Enzo Moscato, Cristina Donadio, Giuseppe Affinito
Alla Sala Assoli di Napoli dal 25 al 30 marzo
Servizio di Antonio Tedesco

Napoli – E’ un recital Patria Puttana, come il suo stesso autore, Enzo Moscato, lo definisce. Ma anche uno spettacolo nel senso pieno della parola, benché ciò che viene messo in scena non è tanto un’azione drammaturgica compiuta, quanto il linguaggio che quella stessa azione nutre e sostiene. Quel linguaggio così ben connotato e riconoscibile, quasi un “marchio di fabbrica”, che da trent’anni e più, ormai, individua il lavoro di Moscato. E cioè, una delle esperienze più forti e intense del teatro contemporaneo,  non solo napoletano. Ciò che si evidenzia in questo allestimento, composto da un montaggio di brani tratti da alcuni dei suoi lavori più noti, è, prima di tutto, quella coerenza e quella continuità stilistica che hanno definito nel tempo, in maniera ormai indelebile, il carattere di questo autore. Nel caso specifico la messa in scena trova il suo liet motiv nel tema, più volte trattato nei suoi testi, delle “donne di piacere”. Un filo conduttore che, al di là della lettera, allude a quello che è stato da sempre il vero oggetto del lavoro teatrale di Moscato, Napoli. La “città puttana”, ma anche la “città patria”, appunto. Al di là dell’apparenza dispregiativa dell’epiteto, si può dire che la parola sia utilizzata qui, in senso alto e nobile. Una “puttanaggine” che è istinto e necessità di sopravvivenza. Un dare il corpo per salvarsi l’anima. Un esporsi impudica per non dover mai svelare davvero la propria natura profonda. Per soddisfare la necessità di creare uno spazio segreto e inviolabile dove salvaguardare e riaffermare sempre la propria indole e la propria cultura. Al di là dei fatti e delle contingenze che hanno costretto, la donna-città “di piacere”, nel corso della sua lunga storia, a “vendersi”.

E proprio di questo, seppur filtrato attraverso la narrazione di fatti e vicende personali, parlano i personaggi che si alternano sulla scena. Con la loro lingua piena e barocca, fatta di assonanze e allitterazioni, di snodi di senso e sorprendenti amplificazione del significato. Un flusso continuo e ininterrotto del linguaggio che comprende e accoglie ogni cosa, rendendo plastica e “visibile” l’esperienza narrata. Un’esperienza che viene assunta e metabolizzata attraverso l’esposizione (o messa in scena) di questo corpo ferito, martoriato, offeso. Ma che proprio in questo suo osceno mostrarsi, in questo stordimento di immagini e di suoni, trova sempre la forza di risollevarsi. Non dalla polvere, ma dalle putride “saittelle”, dalle immonde cloache, nelle quali continuamente viene cacciato, per poi rigenerarsi e rinascere ogni volta dalle sue stesse miserie.

Enzo Moscato è, oggi, il cantore di questa Napoli santa e puttana, dove corpo e spirito, alto e basso, non solo si incontrano, ma si confondono in un coacervo, in un groviglio, difficilmente districabile.

Come succede per la storia di Luparella, che fa da filo conduttore dello spettacolo, e che addensa attorno a sé un grumo indistinto di vita e di morte, di profanazione  e di rinascita. Intorno alla sua tragica vicenda, che si articola sulle particolari modulazioni vocali e recitative dello stesso Moscato, altri personaggi, quasi apparizioni fantasmatiche riemerse dai testi dell’autore (da Piece noir a Bordello di mare con città a Ragazze sole con qualche esperienza), aleggiano intorno al nucleo centrale di questa narrazione, come a ribadirne e a rinforzarne il senso, sradicandolo dal contesto e proiettandolo in una dimensione universale.

Quasi un coro, tragico e ironico ad un tempo, cui danno vita con incisività e vigore il bravo Giuseppe Affinito e, con la sua sempre emozionante e coinvolgente presenza scenica, Cristina Donadio.

 

29 marzo 2014

 

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