“Sputa la Gomma!”, pièce ironica e disincantata sull’incontro-scontro tra scuola e teatro
Di e con Pierpaolo Palladino all'Elicantropo fino al 30 marzo
Servizio di Marco Catizone
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Servizio di Marco Catizone
Napoli
- Forse che l’uomo, attore per celia e un po’ per non morire, ritorni bambino,
ad ogni legno calpestato? Forse che
non scalpiti di nuovo, e ancora, come alunno ex cattedra, coi lemuri d’un tempo a ballargli nella testa, come
sonetti popolari, come fossero del Belli, Gioacchino, mordaci strali? E allora “Sputa
la gomma!” Pierpaolo Palladino, alias Lorenzo, che il lunario non aspetta, da sbarcare ci sono i captivi discenti, tutti
infraquattrodicenni, prigionieri di scuola matrigna e periferie lunari, viepiù romane,
pasolinianamente epigoni della Strada che
fu; ma Fellini è lontano, il nastro è strada d’acciao e cemento, come latta a
medaglia, da appuntarti al petto se il lavoro
andrà in scena, in porto e senza scuffiar, che a sbuffare ci pensano i
puledrini instancabili, i diavoletti in divenire che ti cuociono a fuoco lento,
in pentolone scrostato, come aule nostrane, all’abbisogna.
Forse
che il tuo spirto emozionale e lucido e ben saldo abbasti ad ammansirne i
singulti con sicumera e baldanza? No di certo, che dell’adolescente, o quasi, i
rovelli son celati, e notturni e prepuberali, e vallo a spiegare a professori, direttori, bidelli,
genitori e alla buonanima del Belli, che lì all’adiaccio d’una palestra
sbrindellata, con campioncini di bigbabol
a ciancicare sgommando, ci sei
finito per sbaglio, per abbaglio, per raglio asinino d’un compare da soap che ti giocò mancino tiro, e tu di
riflesso gli assesteresti volentieri un destro a giro; ma vallo a spiegare a
loro, Pierpaolo, che sei solo attonito spettatore di umili bamboccetti affastellati
e in rincorsa iniziale, già in debito, e quanto. E su, “Sputa la gomma!” Rosi, Tyron, Pamela, etc. etc., folletti indomiti
e scornosi, tignosi animaletti da
palco, pischelli in fuga concentrica, omuncoli già induriti da pieces esistenziali, slabbrate eppure
dannatamente vitali, ardenti; nessuna rinuncia, che la barcaccia è da attraccare
in porto, per un conto che cresce alla distanza, sviluppandosi dall’amniotico onfalos d’un precario docente in
affanno, giunto per caso e dissonanza sulla zattera di mocciosi scalcagnati,
fino all’onda più alta, che spariglia e atterrisce, oppure smalizia e “ammatura”.
Mai
luogo fu più adatto d’un palchetto improvvisato, palestra reale d’una scuola
frustra, svilita e stracqua, per disvelare l’epifania d’un uomo compiutasi nella
regia di suggestioni e rimembranze calate sulle alucce spiumate e ferocemente
innocenti, di giamburrasca romanacci commoventi, racconto d’un riscatto possibile
per adulti in formazione e ragazzini già cresciuti, lontano per una volta dal
silenzio assordante delle periferie distoniche, senza baricentro, in equilibrio
precario e costante disillusione.
Palladino
è attore compiuto, il seme virale d’una lingua contaminata, a commistione, è
ben fecondo; la regia è giustamente scarna, come linoleum a pavimentazione che mestamente ricordiamo, lavagna e
sipario che divengono copione per sonetti urticanti ed irrisori; s’aprono le
danze e si schiude il palco, e i diavoletti angelicamente all’unisono gridano: “Merda!”. E fu teatro, nonostante tutto.
Si
spera, e si consiglia, caldamente il bis.
31 marzo 2014
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