IL TEATRO CHE VUOLE METTERSI IN GIOCO

Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti
Passando per Arlecchino
Servizio di Antonio Tedesco


Napoli - Zeno Cosini non ha mai smesso di fumare l’ultima sigaretta. La crisi per lui, prototipo del novecentesco “uomo moderno”, era la norma. Una componente fondamentale della sua stessa identità. Anche guarire autoconvincendosi di essere “sano”, in senso sociale e identitario, era un segno forte di quella crisi, di quella “malattia” che forse, alla fine, era l’unica cosa che gli consentiva di vivere. Se ne fosse venuto fuori, se avesse smesso di analizzarsi, di riflettere, di divagare su se stesso e sulle esperienze che avevano segnato la propria vita (dalla famiglia, alle donne, al vizio del fumo), forse l’avrebbe persa davvero quella coscienza. Quella incerta, traballante consapevolezza di sé. E che pure, naufragando nel mare di un travolgente modernità, rimaneva l’ultimo fragile appiglio cui attaccarsi. Senza quello stato permanente di crisi avrebbe semplicemente smesso di essere Zeno Cosini, precipitando in quel vuoto in cui la sua vertigine esistenziale sembrava attirarlo.

A parte le infinite letture cui il romanzo di Italo Svevo può indurre, inclusa la riduzione teatrale che Tullio Kezich ne fece nel 1964, e che per la regia di Maurizio Scaparro è in scena questo mese al Mercadante, la vicenda di Zeno Cosini ci sembra una calzante metafora del teatro contemporaneo. Il quale, in questi ultimi anni (decenni?), sembra aver fatto della crisi il suo habitat naturale. Addirittura una condizione privilegiata grazie alla quale (non sembri un paradosso) riesce a guadagnarsi faticosamente il suo spazio di sopravvivenza. E per crisi, in questo caso, non intendiamo la “semplice” contingenza economica, ma qualcosa di più radicato e profondo. Che ha a che fare con gli stessi linguaggi espressivi con i quali il teatro si manifesta, e si confronta con il pubblico che ancora lo segue. Non è facile in un mondo che ha fatto della comunicazione semplificata e veloce il suo carattere distintivo, proporre e riaffermare l’idea di complessità. Analizzando i segni e le implicazioni che tale complessità comporta. Cercando di dare una scossa perché gli schemi precostituiti si rompano e la mente si apra a nuove visioni. La crisi in cui si dibatte il teatro è tutta in questo dualismo tra la stasi percettiva e l’evoluzione di un linguaggio che, per sua natura, è costretto ad andare oltre per non morire soffocato in una sterile e stagnante riproposizione di sé. Le forti contestazioni che ha suscitato in una parte del pubblico il recente allestimento del Servitore di due padroni (anche nelle recenti repliche al Teatro Bellini, ma non solo qui) che Antonio Latella ha tratto dal famoso testo di Goldoni, ne sono una prova evidente. Ciò che bisogna chiedersi è se siano state generate da una costruttiva dialettica che vede il teatro come elemento ancora capace di dividere e far discutere o non siano piuttosto il segno di una insofferenza, di una incapacità di uscire da quegli schemi mentali di cui sopra per confrontarsi con un livello più complesso, appunto, di percezione. E’ il teatro che guarda il suo pubblico e che ancora una volta, come Zeno Cosini, fuma la sua ultima sigaretta, sapendo che in quel gesto infinito sta la sua unica speranza di sopravvivenza. Un teatro costretto a mimetizzarsi dietro la sua incontenibile versatilità. Un teatro che ha mille facce e che in un “batter di ciglia” le muta e le rappresenta con la stessa sconcertante abilità di Arturo Brachetti che con il suo scatenato trasformismo sarà questo mese all’Augusteo per riaffermare, con Latella, che Arlecchino (il Servitore di due padroni, appunto) può avere un’infinità di colori ed esibirsi in molteplici lazzi, ma che può anche essere uno spazio bianco, vuoto che con una beffa e una capriola copre gli abissi del disagio e della sofferenza, dell’inadeguatezza del ruolo, di un desiderio malato che può spingersi fino alla pulsione incestuosa.

E così, ripercorrendo la programmazione di questo mese, seguiamo in un certo senso il percorso multiforme di questo ideale Brachetti, di questo postmoderno Arlecchino trasformista che si reinventa e reincarna di sala in sala, di spettacolo in spettacolo mostrandoci tutte le infinite possibilità del suo essere intimamente e profondamente Teatro, toccando le tappe della sua storia e, allo stesso tempo riscrivendole. Da Antigone, che contrappone la sua umanità alla follia della guerra e del potere, al Piccolo Bellini, nella rilettura di Ali Smith, con Anita Caprioli, a Riccardo III, maschera deforme, e teatrale quanto mai, del perverso desiderio di onnipotenza generato da quello stesso potere, nella versione che a Galleria Toledo ne dà Laura Angiulli, fino al Cabaret Yddish di Moni Ovaia, che condensa, in una impeccabile giravolta, sempre di quel teatro, la tradizione e la cultura del suo antichissimo popolo, per giungere, poi, alla ricerca di una Identità, come titola lo spettacolo di Marco Baliani, al Nuovo, che potrebbe anche ingannare se stessa, come quella di Pinocchio, di Babilonia Teatro, alla Sala Assoli. Ma non è solo questo, altri lazzi e capriole e intrattenimenti vari sono sparsi nei teatri della città, perché Arlecchino non debba mai deludere il suo pubblico e possa sempre essere, come il teatro stesso, Servitore di due, o forse di infiniti, padroni, e nella sua connaturata versatilità, sia capace di sedurre e sorprendere ogni singolo spettatore. Ciascuno secondo le proprie esigenze, le proprie capacità, le proprie aspettative.

Ma soprattutto, secondo la propria voglia di mettersi in gioco.

 
19 marzo 2013


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