“IL CONFESSORE” di Giovanni Meola con Aldo Rapè

Al Théâtre De Poche, nel cuore tufaceo di Via Tommasi
Servizio di Marco Catizone

Napoli - “Il male è prodotto dell’abilità degli uomini”, Sartre docet, luciferino ammonisce.
L’attesa, nuda si flette, nell’attimo d’un raggio sospeso nella diafana ribalta d’una sacrestia, sacello misterico; snervante, in bilico perenne: un uomo, solo, di nero vestito, in scena. E’ il “parrino”, Il Confessore, a riempire, avvolgente, l’horror vacui d’una quinta scarna, cassetti divelti e storti, pensieri in disuso da lucidare e ricalibrare, una sedia lignea, un volto sferico, palla di stracci, da prendere a calci come impure estistenze scalcignate di rivoli pietosi mai tramutatisi in acque: un fiume carsico, una dolente scissione ex voto, d’un singolo fujente che volle, fortissimamente volle, la rivolta, indossando i paramenti d’uno stillicidio annunciato, contro i tagli sconnessi d’un tessuto ormai lacerto, a battersi il petto di padre senza prole, segnato da croce, come unica mission per affermare identità e senso in terre desolate come carburatori catramosi e spenti, a spurgare pece come fosse humus, di mafia e camurria dove c’è vita, e radici, e linfa nonostante tutto.  E il confessore, dalle terre scarne di cunti e conti da saldare a ferro e mitraglie, A Ciascuno il Suo e un Dio inchiodato, inchiavardato per tutti, extrema ratio, extrema unzione per anime prave, è il perno mobile del racconto; chiuso nel ventre ossuto d’una chiesa di periferia, offre la sua storia all’uditorio, rielabora in camera oscura, in attesa dello scatto, del riscatto a sacrificio, a rammendare esistenze slabbrate, un martirio più che laico e rituale, da vivere al rallentatore. Aldo Rapè, sciamano errante, gnommero semantico a ruciuliare per rue linguistiche a metà via tra gramlot e spurio seme, impasta siculo e parlesia, napoletano e “camillerese”, prestando il volto e le movenze ad uomo votato al corpoessanguediCristo, alla specularità maieutica di rincalzo alla pia banalità del male, ferino e pulsante, radicato in terra sconsacrata, di uomini persi o quasi, parrini a loro volta, di parole a sentenza, esiziali; eppure non è martire, non vuole esserlo Il Confessore, ma contnua a misurare lento pede‘a vocca d’ ‘o riavulo”, a sezionarne la lingua, così vicina, tanto da sentirne l’orrendo effluvio e puzzo di morte.
Vive l’attesa: dell’ennesimo bersaglio, dell’ennesimo morto ammazzato, tra scampoli di pietas come brani al desco della solitudine; d’anime e sangue, richiamo avito di peccati scostumati, consumati al lume d’una catarsi irredenta, impossibile, alla fioca luce d’un altarino ascoso, quasi invisibile, che perimetra il limen d’un confine già segnato: confessione e pentimento, nella trama un filo torto; che uno, dopo una vita passata a perdonare per dovere gli sgarri altrui, sarà sempre un “signato”, dazio e obolo da versare mirando una croce, come fosse eterna eucarestia. Bravo e convincente Rapè, il testo è semplice nella sua essenzialità, non scantona, mantiene i margini, forse osa poco, o troppo è il calpestio su trame già lise perché troppo rappresentate: mafia e camorra son pane quotidiano, per chi quelle terre vive e respira, giorno dopo giorno.
Morto dopo morto.
                                                                                                                                         

24 marzo 2014
 
 
 
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