Moni Ovadia: “Con l’umorismo del Cabaret Yiddish vi svelo la stupidità del mondo”
Alla scoperta di una grande tradizione
culturale: quella degli Ebrei dell’Europa centro-orientale. Al Nuovo Teatro Nuovo
Servizio di Caterina Pontrandolfo
Napoli - Dialogare
con Moni Ovadia sul suo “Cabaret Yiddish”, in scena dall’11 al 16 marzo al
Teatro Nuovo è una occasione per approfondire la conoscenza con un vero artista
del nostro tempo e un fine intellettuale, che mediante la diffusione della
cultura ebraica riesce a essere portatore di intelligenza, di cultura e di
pace.
Ovadia, che cos’è “Cabaret Yiddish”?
“Come
il girovago commedianti del Carro di Tespi, che arriva con i suoi incanti, le
sue storie e sberleffi e racconta mondi interi, anche noi con musica,
storie, storielle e canti raccontiamo un’epopea,
quella del popolo dell’esilio, gli ebrei dell’Europa centro-orientale. Un
popolo in tutto e per tutto, che non ha bisogno di confini, fili spinati,
eserciti, polizia, burocrazie; con una lingua, una interiorità, una identità. Questo
popolo ha vissuto nelle terre dell’esilio e ha costituto una umanità
straordinaria che ha avuto nel pensiero umoristico una modalità espressiva, un
modo di esistere. E il centro di ‘Cabaret Yiddish’ è proprio l’umorismo, che si
intreccia con momenti dolorosi, perché non è mai come il cabaret televisivo. Il
suo scopo non è fare ridere, ma far riflettere, sconfiggere la violenza, i
pregiudizi, mostrare la stupidità del mondo. Questo popolo dell’esilio aveva
come proprio eroe l’uomo goffo, l’uomo fragile, instabile, e credeva che la
redenzione si fondasse sulla grazia dell’instabilità. Un umorismo, insomma, che
si declina con un livello di pensiero e di spiritualità vertiginosi”.
Uno spettacolo che ha una lunga storia…
“Sì,
lo facciamo ininterrottamente da 25 anni, è per tutti e ha sempre successo, aldilà dei meriti miei e della mia compagnia.
Io sono stato molto fortunato perché ho incontrato quel mondo, ormai al
crepuscolo, proprio a Milano, in una piccola sinagoga. Ne ho visto gli ultimi
bagliori. Ho conosciuto vecchi straordinari e ho imparato da loro gesti e con un
minimo di capacità ho messo in scena il loro mondo, dando vita a uno spettacolo
che ha una magia misteriosa”.
Quando decise di dedicare la sua vita
alla musica e al teatro?
“Sono
laureato in scienze politiche e ho sempre avuto passione politica e sociale. A
un certo punto, compresi che il linguaggio della musica e del teatro potevano
servirmi a comunicare le idee in modo molto più libero ed efficace, erano più
utili dei saggi che avrei potuto scrivere. Nessun altro strumento come il
teatro offre così tanto, proprio per la sua libertà estrema”.
Forse è l’ultimo luogo di libertà
espressiva del nostro tempo?
“Credo
sia davvero un sacrario dell’essere umano. Attraverso la finzione, il teatro è
forse l’unico luogo di verità che esista oggi; e proprio perché c’è la finzione
che impedisce di pretendersi depositari di verità assolute, come quelle dei
tiranni e dei religiosi, che non sono verità e possono fra sgorgare fiumi di
sangue”.
Tra i suoi incontri artistici, quello
con Kantor le ha cambiato la vita.
“Vederlo
provare gli spettacoli è stata una lezione fondamentale. Senza di lui non so
neanche se avrei cominciato a far teatro”.
Quale visione d’arte le ha lasciato?
“Intanto,
era un genio. E quando si incrocia un
genio è difficile spiegare cosa ti abbia lasciato. Forse la grande libertà: il
suo teatro prendeva spunto dalle arti figurative e si costruiva come un’opera
d’arte compositiva. Rompeva ogni
schema del teatro, regole, grammatica,
convenzioni. Nel suo mondo, ad esempio, non ci sono attori. Kantor teorizzava
l’attore-manichino, che ‘indossa’ il ruolo, non lo interpreta. Questo significa
uscire dagli psicologismi a favore della libertà inventiva”.
Il suo rapporto con Napoli e il suo
teatro, i suoi artisti?
“Be’,
sono cresciuto con i suoi artisti, visti a cinema e in tv e poi, certo, anche
in teatro. Nessun italiano può prescindere dalla tradizione del teatro
napoletano, con la sua capacità di incarnare un intero popolo. Totò, Peppino De
Filippo… e poi la lezione di Eduardo, per non parlare del teatro musicale di
Roberto De Simone. Sono un ammiratore di Enzo Moscato, che ha saputo essere
fedele a Napoli, ma attraverso rotture continue. E c’è la musica, la melodia
classica, e Murolo, Bruni, Gennaro Pasquariello… Ma sa che il pianista della
mia compagnia è il nipote di Gennaro Pasquariello? Napoli è una città difficile, piena di
lacerazioni, ma ha potenzialità enormi, e ha dato al Paese una parte
significativa della sua identità”.
Ha detto che l’Italia tende a trascurare
i suoi artisti di maggior talento.
“Se un
Paese non valorizza e onora i propri maestri, il problema non è loro, ma del
Paese. Vendiamo la canzone napoletana, il melodramma, l’opera buffa, i
monumenti, il Rinascimento, Goldoni, la Commedia dell’ Arte… diamo via tutto e
che cos’è l’Italia dopo? Più niente. Ma
i politici non vogliono capire che la cultura dovrebbe prolificare, fare scuola, e si
accontentano, ogni tanto, di tardivi riconoscimenti a qualcuno di quei maestri”.
In Francia sta facendo scalpore il
comico Dieudonné che nei suoi spettacoli incita all’antisemitismo, si è fatto
un’idea della questione?
Non
lo so, non ho visto i suoi spettacoli. Posso fare solo una considerazione:
credo che Dieudonné abbia reagito in modo aggressivo, e forse esagerato, per un
profluvio di retorica che si è fatta in questi ultimi anni anche sul Giorno
della Memoria. C’è retorica e falsa coscienza, e probabilmente le reazioni a
questo sono viscerali e possono sfociare in giudizi sommari”.
A proposito, lei ha detto che il Giorno
della Memoria dovrebbe diventare il Giorno delle Memorie…
“Il
Giorno della Memoria è un equivoco. Non è stato istituito per gli ebrei, ma serve all’ Europa, perché è l’Europa che ha covato
nel proprio cuore i carnefici. Gli ebrei sanno molto bene, hanno una memoria
specifica che si è costruita in 3500 anni di storia. Parlo del Giorno delle
Memorie perché vanno ricordati i dolori e gli stermini di tutte le genti, dal
genocidio degli Armeni all’invasione giapponese della Manciuria, all’Italia con
i due genocidi commessi in Cirenaica ed Etiopia, altro che italiani brava
gente! Per non parlare della Cambogia, al genocidio dell’America in Vietnam, fino
all’ Ex-Jugoslavia, al Ruanda… Ecco: il Giorno delle Memorie… che, per giunta, dovrebbe
tenere alla larga quei politici che fanno i carini con gli ebrei e poi
approvano la Bossi-Fini, trasformando il Mar Mediterraneo in un cimitero”.
10 marzo 2014
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