“TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT” - Drammaturgia Chiara Lagani – Regia Luigi De Angelis – con Marco Cavalcoli
Al Teatro Galleria Toledo di Napoli il 12 e 13 novembre
Servizio di Antonio
Tedesco
Napoli - Conferenza-spettacolo viene definita, ma in
realtà questa messa in scena di “Fanny e Alexander”, compagnia teatrale di Ravenna, tra le
più attive e stimolanti nel campo della ricerca e dell’innovazione teatrale in
Italia, ma molto presente e quotata anche all’estero, è una sofisticata e
stratificata riflessione sui ruoli, le strutture e i modi – oltre che sul senso
– del fare teatro.
Partendo da Amleto (vale a dire la crisi
di identità dell’uomo moderno), un attore (Marco Cavalcoli), che tiene una
conferenza sul personaggio shakespeariano, proietta se stesso nella figura del
regista catalano Roger Bernat. Quest’ultimo, per le particolari forme di teatro
che pratica, potrebbe dirsi una sorta di regista-burattinaio. Artefice e
promotore, cioè, di un teatro partecipativo che richiede il coinvolgimento
dello spettatore come parte attiva e necessaria allo svolgimento e allo
sviluppo dei suoi progetti di rappresentazione.
Utilizzando strumenti tecnologici come auricolari e ricetrasmittenti,
l’artefice-regista indaga, attraverso le reazioni indotte da una serie di
stimoli e di indicazioni, i meccanismi e le dinamiche della vita individuale, e
in che modo questi interagiscono nel più ampio contesto della vita politica e
sociale. Il suo teatro, quindi, “scende” nel mondo, e utilizza le tecniche di
finzione e rappresentazione per disvelare proprio gli ingranaggi che quello
stesso mondo muovono, i meccanismi relazionali, aggregativi e rappresentativi
che in esso si costituiscono e si sviluppano. Tutto ciò preferibilmente fuori
dai teatri, nelle piazze o in altri luoghi pubblici dove lo spettatore-attore
può muoversi a suo agio lungo i percorsi del proprio vissuto quotidiano. Ma il
concetto di spettatore-attore rimanda fatalmente a quello di Amleto. Alla
necessità, e alla difficoltà, di trasmigrare da un ruolo all’altro. Di guardare
la propria realtà con gli occhi di un altro. Ed ecco allora che
nell’allestimento di Fanny e Alexander, il regista-burattinaio Bernat rimanda
subito ad un terzo importante elemento, il burattinaio di Essere John Malkovich, il film di Spike Jonze del 1999 (cui il
titolo dello spettacolo allude), nel quale la figura dell’attore-divo John
Malkovich, appunto, diventa come una sorta di contenitore in cui altre figure,
altre individualità, convergono. Il corpo dell’attore, quindi, che si fa corpo
dell’umanità stessa e le dà un senso, come se l’atto della rappresentazione
fosse una legittimazione, e una verifica, allo stesso tempo, dell’esistere.
Come lo stesso Amleto, diventa uno spirito che pervade ogni cosa, si incarna
nella mille facce del pubblico, si riflette in esse, anzi, vi si sovrappone.
Questa conferenza-spettacolo, dunque è un saggio su quello che potremmo
definire il “teatro globale” delle nostre esistenze, il teatro che vive e si
manifesta costantemente nelle vite di ognuno, seppur, nella gran parte dei
casi, in maniera automatica e inconsapevole. Bernat smonta questo meccanismo, e
Marco Cavalcoli, sulla scena di Galleria Toledo, esibisce una riproduzione
della testa del regista spagnolo, come fosse il teschio su cui Amleto recita il
famoso monologo. Si stabilisce, quindi, un corto circuito, una concatenazione
vertiginosa di rimandi, di allusioni di riferimenti che agiscono però, in
maniera diretta sulla spettatore in sala. Questi, alla maniera di Bernat,
fornito di auricolare e apparecchio ricevente, ascolta l’attore che che recita
e disquisisce in più lingue, usufruendo di traduzione simultanea, viene chiamato a partecipare, seppur in
maniera volontaria e simbolica, investito di un ruolo che, secondo la logica di
questa rappresentazione, è tanto più credibile quanto più approssimato e meno
“sporcato” dalla tecnica attoriale. E in tutto questo Cavalcoli dispiega una
rassegna pressoché infinita di Amleti (quanti ne potrebbero essere tutti gli
spettatori reali e potenziali che vi assistono?) che va dal cartoon a Laforgue passando per
tutte le varianti possibili, mettendo in campo (lui sì) una tecnica vocale e
recitativa di stupefacente versatilità, per ribadire ancora una volta che il
teatro è dentro di noi e la “quarta parete” è una convenzione illusoria che non
ci protegge, ma, al contrario, ci risucchia nel suo vortice turbinoso.
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