“NATALE IN CASA CUPIELLO” - di Eduardo De Filippo – regia di Antonio Latella
Al
Teatro San Ferdinando di Napoli dal 16 al 27 novembre
Servizio
di Antonio
Tedesco
Napoli – Si presta a molte diverse, e
forse complementari, letture questo Natale in casa Cupiello di Antonio
Latella, che finalmente arriva anche a Napoli, al Teatro San Ferdinando, dopo
aver debuttato due anni fa al Teatro Argentina di Roma. Si tratta di
un'operazione molto raffinata che mette in corto circuito il testo di Eduardo
(recitato alla lettera, didascalie e accenti compresi) e la messa in scena di
Latella che, attraverso una fitta serie di segni e di rimandi, carica quello
stesso testo di nuovi, sorprendenti significati.
Per mezzo di tale, fedele,
riproposizione verbale la scrittura di Eduardo viene “aperta” e per certi versi
vivisezionata. Ciò che emerge sono i personaggi da lui creati, ma che, pur
rimanendo fedeli alla “lettera”, assumono qui valenze ulteriori e diverse che
ne allargano di molto la portata e il significato. L'autore stesso (Eduardo De
Filippo) diventa a sua volta personaggio, proprio in quanto artefice materiale
della scrittura. Si sovrappone, più che identificarsi, alla figura di Luca
Cupiello. E come questi, per certi versi nella sua vita fa con il presepe,
traccia segni nell'aria che rimandano all'atto dello scrivere, ma nel vuoto,
senza lasciare realmente nulla di concreto, che non sia quella volatile,
passeggera, inafferrabile azione scenica che da tale scrittura scaturisce. Luca
Cupiello nella sua veste di personaggio-autore, del testo e del presepe che ne
è al centro (e che qui sembrano perfettamente coincidenti), è l'unico tra tutti
i personaggi schierati in proscenio ad apertura di sipario a non avere la
mascherina-benda sugli occhi (che rimanda, forse, ad una indeterminata, oscura
“non esistenza”). Man mano che la declamazione-recitazione del testo prosegue e
i vari personaggi vengono chiamati in causa, questi, liberandosi delle dette
mascherine, sorgono, letteralmente, alla luce. Il teatro-presepe prende a vivere,
ma di una vita-non vita. O meglio di una vita che per essere tale necessita
della sospensione di incredulità da parte di chi vi assiste, o osserva, quel
presepe (teatro) inanimato, quasi un'icona, pieno di segni e di riferimenti, ma
che richiedono la partecipazione attiva dell'osservatore-spettatore perché
tutti i significati (e i significanti) si possano pienamente dispiegare. Ma chi
ha più tempo e voglia di interpretare un teatro-presepe, che sembra così
lontano e incongruo rispetto al vortice della vita quotidiana che risucchia
ogni istante e ogni energia nel suo continuo manifestarsi? E così, dopo che la
furia di Ninuccia ha distrutto l'amorevole creazione paterna (il presepe,
appunto), nella seconda parte dello spettacolo, mentre tutti si affannano nelle
faccende quotidiane (Concetta, la moglie di Luca, tira letteralmente la pesante
carretta della vita-famiglia di ogni giorno) complicate da trasversali vicende
amorose, la voce di Eduardo registrata incombe sulla scena ripetendo più volte
la battuta “Mò miettete a fà o’ Presebbio n’ata vota”, generando nei frenetici
e indaffarati personaggi rapide, quanto ben leggibili, reazioni di sorpresa e
fastidio. In pratica è l'eterna contraddizione della vita che rigetta l'arte e
non si accorge che l'arte la rappresenta e la smaschera in ogni suo aspetto (o
forse proprio per questo genera una inconscia reazione di rigetto).
Su questa
linea, dunque, il contrasto tra il testo che continua a scorrere attraverso la
voce degli attori, e l'azione scenica spiazzante, che continua a sua volta a
riempirsi di simboli, nei gesti, nei costumi, negli “oggetti di scena”, tra i
quali enormi “peluche” che rimandano ai tipici animali che popolano le
classiche rappresentazioni presepiali, crea una sorta di forbice che va stringendosi
sempre di più sull'inevitabile finale sacrificale, nel quale Luca-Eduardo, nudo
nel suo letto-culla-mangiatoia, in preda a quelli che si direbbero gli esiti
finali della malattia che l'ha colpito, muore in realtà soffocato col cuscino
per mano del figlio Tommasino al quale il presepe “non piaceva”. E con questa
invenzione registica, che suggella un lavoro affascinante e suggestivo, Latella
spalanca un abisso di senso chiudendo, attraverso la parabola del
personaggio-autore (o dell'autore-personaggio) il cerchio della nascita e della
morte in un percorso cristologico dove è l'arte stessa ad assumere un ruolo
sacrale e a definire il sacrificio di sé come unico possibile sbocco del suo
essere eternamente ed estenuantemente vita-non vita.
Come sempre negli spettacoli di
Latella gli attori (dodici in scena in questo allestimento tutti in ugual modo
bravissimi, a partire dagli eccellenti Francesco Manetti e Monica Piseddu,
rispettivamente Luca Cupiello e sua moglie Concetta ) sono motore e parte
integrante di una complessa e articolata macchina teatrale cui concorrono
parimente gli elementi scenici (la gigantesca e minacciosa stella cometa che
riempie la scena in tutta la prima parte dello spettacolo, oltre alla suddetta
“carretta”, agli animali di pezza, ecc.), il sofisticato gioco di luci, le
musiche, che si spingono fino a rappresentare sprazzi di melodramma, gli
spiazzanti costumi. Il tutto per rinnovare dal di dentro un testo che (senza
nulla togliere al suo valore intrinseco) corre seri rischi di essere iconizzato
e museificato nel suo immutabile (verrebbe da dire presepiale), cristallizzato,
ripetersi sempre uguale a se stesso.
©RIPRODUZIONE
RISERVATA
Commenti
Posta un commento