“Breviario del Caos” – installazione performativa dal testo omonimo di Albert Caraco - Progetto e regia di Enzo Marangelo
Al
Teatro Galleria Toledo di Napoli dal 28 al 31 gennaio
Servizio
di Antonio
Tedesco
Napoli
– Capita, a volte, che certi temi siano nell’aria.
Abbiamo avuto modo di vedere nelle ultime settimane alcuni spettacoli che,
seppur in modi e forme diverse, ci è sembrato declinassero un medesimo
denominatore comune. Ci riferiamo a Canto
di un poeta che se ne muore di Mario Fedeli, visto qualche settimana fa a
Galleria Toledo, La nostra classe di
Tadzeus Slobodzianek, per la regia di Massimiliano Rossi, al Cineteatro La
Perla, in occasione della Giornata della Memoria (entrambi già trattati in
altri articoli) e, in questi giorni, Breviario
del Caos, installazione performativa di Enzo Marangelo, vista ancora a
Galleria Toledo. Tutti e tre trattano il tema della morte, non tanto come
fatale e ineluttabile evento naturale, quanto, piuttosto, come atto di
ribellione estremo, l’unico possibile per un’umanità il cui destino è
inesorabilmente segnato. Un gesto di ribellione che è allo stesso tempo, un
atto di struggente nostalgia per quella stessa vita che non può, non ha potuto,
manifestarsi nelle sue forme più autentiche.
A
proposito del suo più famoso lavoro, La
classe morta (1975) che, seppur trasversalmente, ha ispirato La nostra classe di Slobodzianek,
Kantor, parlando dei suoi protagonisti (ex bambini che si sono perduti nella
vita e dunque già, per certi versi, “morti”) ebbe a dire: “Essi stessi sono già
quasi morti, colpiti da malattia mortale. E’ a questo prezzo, dell’estraneità e
della morte, che ottengono l’opportunità di diventare oggetti d’arte”.
Questa
dichiarazione di Kantor ci pare la migliore introduzione possibile al Breviario del Caos, tratto dal testo
omonimo del filosofo e scrittore francese Albert Caraco, una sorta di manifesto
del nichilismo estremo. Un’analisi lucidissima e spietata della condizione
umana che sgombra il campo da tutte le illusioni e gli infingimenti che
accompagnano, e spesso sostengono, le nostre esistenze. Una sorta di crudele
vivisezione, un’operazione chirurgica sulla vita stessa e la disperata ricerca
di senso che l’accompagna. In seguito alla quale l’autore, con rigorosa
coerenza, trasse le estreme conseguenze, suicidandosi nel 1971, all’età di 52
anni. Esponente di quella che potremmo
definire una frangia estrema dell’esistenzialismo e che è forse solo la ricerca
di una vita vera, quella che le morali, le religioni, i giochi di potere
politico, le asfissianti leggi dell’economia, continuano a negarci, Caraco fa
di se stesso una vittima sacrificale. E Enzo Marangelo, in quest’installazione
(presentata da Hypokrites Teatro Studio di Solofra alla Galleria Toledo) ne
coglie perfettamente, e ne rappresenta, il senso profondo. Quello di un’umanità
che, negando sé stessa, rimane paralizzata nella condizione generalizzata di
“morti viventi”.
In
un cubo-obitorio ci sono corpi di donne distesi (nudi nell’anima prima ancora
che nel corpo) sui ripiani collocati a diversi livelli che ne compongono la
struttura interna, con il loro cartellino attaccato all’alluce, quasi fosse
un’etichetta, o meglio un marchio, unico elemento che quei corpi identifica.
Tra i corpi vivi-morti, un manichino a simboleggiare tutta l'umanità che quel
cubo sembra contenere. Intorno, sparsi, strumenti chirurgici, lastre
radiografiche, pezzi di bambole (braccia, gambe, teste) ammonticchiati alla
rinfusa (i bambini perduti di Kantor?). Sulle tre pareti che racchiudono il
cubo, immagini di dettagli anatomici, ma anche di ecografie, vengono proiettate
alternate a brani tratti dai testi di Caraco. Il tutto immerso in una musica
ipnotica e avvolgente. I corpi immobili delle donne si animano per recitare
brani dall'opera del filosofo francese. Come a esporre le ragioni della loro
(immutabile) staticità. Alla fine sembrano rianimarsi in un movimento fluido
che le porta a modificare le loro posizioni all'interno del cubo stesso, come
se fluttuassero in una dimensione ulteriore, un tentativo, forse, di trovare un
registro diverso per la propria esistenza. Ma non riescono a “volare”, a
staccarsi realmente da quel luogo, a uscire fuori da quell'angusto spazio che
pare destinato a contenere per sempre i loro corpi, e forse le loro anime. E'
una sintesi potente ed efficace quella di Enzo Marangelo, che coglie a pieno
tematiche forti e poco frequentate, e ci conferma che il teatro, e l'arte in
generale, restano, e sono sempre di più, gli unici strumenti ai quali affidarci
per acquisire una serena (dato l'argomento si direbbe un controsenso, ma non lo
è) consapevolezza della condizione umana.
Una
citazione per le brave attrici-performer è d'obbligo: Martina Coppeto, Piera De Piano, Fabiana Parmigiano, Roberta Vitale, tutte ammirevoli per la completa
adesione e la partecipazione fisica ed emotiva con cui ognuna di esse mette in
gioco tutta sé stessa.
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Bella ed intensa recensione.
RispondiEliminaMi pare però opportuna una corretta menzione delle attrici,a cui va il plauso,ovvero: Martina Coppeto, Piera De Piano, Fabiana Parmigiano, Roberta Vitale.
Grazie della precisazione. Purtroppo dal programma in mio possesso risultavano quei nomi.
EliminaI nomi sono stati corretti. Ci scusiamo con le attrici.
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