“Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee, regia di Antonio Latella.

Al Teatro Bellini, dal 1 al 13 febbraio.

Servizio di  Marco Catizone

Napoli – Vizi famigli, intime impudicizie, a cascata ed arrocco, per s-coppia engagèe, al di là dello sciabordio alto-borghese, immersa nel gorgo diuturno d’esser corpi  perversi di scena, pervasi dal flusso psicanalitico di coscienze arrovellate, affastellate in un deliquio armato e quotidiano: Edward Albee con il suo classico “Chi ha paura di Virginia Woolf?” portò (era il lontano 1964, in un’America preda di speranze e vittima di stilemi socio-culturali da preservare, mummificare, preservandoli in formaldeide) sulle assi il sintagma aureo d’una coppia in itinere, in alveo e utero, radical-shock sfiniti e disillusi, al capolinea d’un ménage di lustri e paillettes sfiorite, in abulico ed oscenico andazzo, immersi, i tapini, nel maelstrom etilico d’una vita a due naufragata in rovine e suppellettili infranti, bourbon e gin a catinelle, arsenico (molto) e pochi merletti, intrisi di bile e veneficium.

Una corrida umana in punta di spillo, tacchi a stiletto e gemelli lustri, carni striate a vulnera e velluti, frenesie inerti e inibizioni frenate, fescennini inscenati da maschere cannibali; come quella di Martha (una Sonia Bergamasco, cangiante di tono e mutevole d’umori, perfetta nel sopra-le-righe d’un personaggio preda d’incubi e frustrazioni ferine) e George (uno stentoreo, convincente Vinicio Marchioni, vittimistico carnefice di glorie inespresse, aspirazioni altrui impaludatesi nell’ abulia messianica, un capro d’ aspirazioni inattese da espiare): son loro, ciceroni inferi, ad ospitar notturni soliloqui d’acidi riflessi a sputacchiera, a destrutturarsi vicendevolmente, rinfacciandosi le turbe e le prossemiche carenze e le distanze incolmabili; avvolti di strali alcolici, a svaporare nella bile corretta a sputi, bourbon-rigmi maligni a svacantare sulla coppia novella di sposi semi-virginali, il duo attonito-imbarazzato (in principio, nell’incipit dramatico) di Nick (un compassato, misurato Ludovico Fededegni) e Honey (Paola Giannini, airone lunare ed argentino, esuberanza giovale in salsa liquorosa) quasi proiezione cinetica, come lemure acheronteo, generato dal plasma inconscio e spiritato dei due coniugi in tellurica rovina).

Preludio di raptus irredento, eppure indefessamente al giogo, e frenato come galoppo d’impeto loffio e sbracato, mutato in zoppia d’impudenza, giochi a specchio maligno: i quattro si studiano, si sfiancano, lavorando minuziosi e cerusici ai fianchi lattiginosi eppur sodi,  per uno sliding doors tra le coppie in bilico perenne, pulsione sessuale e pruderie trattenute, solleticate e mai sazie, con lo spettro del Padre evocato ed imperante, mai necato, negato, tronfio a svettare, ineluttabile e sinistro ( il vecchio Rettore, padre di Martha, moloch perenne a frustrare le velleità accademiche  del professorino di storia, il poor George, incapace ahilui di farla, la Storia), e fiumi carsici di alcolici a condirne l’agonia: tre- ore- tre di partogenesi endemica e patogena, con gli attori che moltiplicano l’effetto grotesque e disforico, come agenti virali del disfacimento borghese, eros e thanatos a contendersi il lusso di sferrare la rasoiata finale, la trafittura ipodermica, la mannaia a croce che disseziona il soma, il coma, d’un tessuto a connubio sospeso e sfilacciato, amorale e inconcludente, lacerto malmostoso per i “vecchi”  George e Martha; pregno di funesti presagi e in proiezione decadente per i “giovani” Nick e Honey .

Piece densa, muscolare e difficile, per attori di razza, ghiaccio secco a fermentare sulla pelle del pubblico affascinato, soggiogato dal massacro in forma di gioco, assassinio e thrilling  che degrada in  diabolici incastri, rovelli verbosi che funzionano a meraviglia, una meccanica scenica perfetta: bravo Latella a scarnificare il senso,  abolendo la mise en scene naturalista, declinando la scenografia verso un’estetica cinematografica alla Lynch, col velluto salvia a drappeggiare lo spazio ligneo su tre pareti, con un vecchio catafalco a ristoro alcolico, a troneggiare come dimensione negativa, anti-materico exitus senza fuga possibile.

“Who’s afraid of the big bad wolf?” (freudianamente trasposto nel parossistico horror vacui evocato da Virginia Woolf, scrittice-golem sfolgorante, disturbante): la risposta è tronca, mozza come testa di coniglio, perfetta iconografia lynchana, simbolo di purezza votato ad orrore, errore semiotico per una comunicazione impossibile; un segno che si imprime nella retina, nella memoria del pubblico, terrorizzato dal non sense fin troppo glaciale d’un equilibrio di coppia ormai impossibile. O forse no?

Applasi, attori perfetti, tempi catartici, capolavoro assoluto.

Munirsi di generi di conforto (tre ore son pur sempre tre ore!).

 


“Chi ha paura di Virinia Woolf?” di Edward Albee

Regia Antonio Latella

con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini

drammaturga Linda Dalisi

scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe

 

 © RIPRODUZIONE RISERVATA  

Commenti