“DURAMADRE” – di Riccardo Spagnulo – Regia di Licia Lanera

Al Teatro Galleria Toledo di Napoli dal 31 marzo al 3 aprile

 

Servizio di Antonio Tedesco

 

Napoli -  Nel nome della Madre. Madre Terra. Madre Natura. Madre che dà e toglie la vita. Madre nell'accezione più ampia possibile. Madre matrona (che, non a caso, fa rima con padrona). Madre che svetta immensa e imperiosa, “normativa” e crudele, sui “figli”. Figure, questi ultimi, fragili e smarrite, destate dal loro stato di natura e investite, con violenza, da regole e imposizioni. Figli per i quali la “grande madre” tesse e imbastisce abiti, indispensabili strumenti con cui dovranno affacciarsi al mondo ed affrontarlo. Abiti che sono, però, sempre incompleti, insufficienti, inadeguati. Che solo in maniera parziale e artificiosa riescono a coprire la loro originaria Nudità.

E' forte e diretto come un pugno nello stomaco, Duramadre, lo spettacolo di Riccardo Spagnulo che la Compagnia Fibre Parallele presenta, per la regia di Licia Lanera, a Galleria Toledo dal 31 marzo al 3 aprile. Una messa in scena che si apre agli occhi dello spettatore come fosse una visione onirica, ma che assume poi i tratti di una verità tanto più spietata quanto più si manifesta in forme eccessive e grottesche. Il lavoro della Compagnia Fibre Parallele si realizza in una scrittura di scena accurata e minuziosa, attenta al dettaglio e carica di una forza simbolica ed evocativa che prende alla gola lo spettatore, gli fa leggere la sua storia, l'eterna storia del mondo. Una scena che parte come una deriva fumosa nella quale i tre attori “figli” si muovono goffi, nudi e imbiancati, quasi maschere di un'umanità inconsapevole e attonita, mentre la madre che li sovrasta da una sorta di cattedra sulla quale cuce per loro i precari abiti, vestita di tutto punto, impartisce ordini e disposizioni. Vecchia madre dispotica che punisce molto e quasi mai premia, che si esprime in un dialetto ibrido e arrogante, contro il timido interloquire dei figli, e che, alla sua morte non lascia altro che quegli insufficienti, forse inutilizzabili vestiti. C'è anche una presenza femminile, tenuta sotto chiave perché non venga a contatto con i “figli” stessi, forse la speranza di un mondo diverso, ma inaccessibile.

C'è molto lavoro sul corpo da parte degli attori, che corrono, lottano, si rotolano nel loro diafano biancore, così come sono efficaci le pose e i gesti quasi da strega cattiva, che la regista e attrice Licia Lanera dà al personaggio della Madre. Ma c'è anche un raffinato lavoro sull'iconografia scenica che raggiunge momenti di profonda suggestione, grazie anche al sofisticato gioco di luci di Giuseppe Dentamaro, per uno spettacolo che non solo si guarda, ma si assorbe e si respira come un'esperienza fisica oltre che dell'anima. Ed è proprio su un gioco di luci di grande effetto che la messa in scena si chiude, dopo che, in seguito alla morte della madre, l'arida terra lascia intravedere uno scorcio forse più rigoglioso di paesaggio. Ma solo per mostrare, subito dopo, il progressivo svanire degli attori. Forse un auspicio, detto e negato, che da quella “landa desolata” una Ginestra (come nel citato Leopardi), possa comunque  sorgere.

Con Mino Decataldo, Danilo Giuva, Marialuisa Longo, Simone Scibilia e Licia Lanera che firma anche le scene.
 
 
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