“Le luci della città”, uno spettacolo teatrale di forte impatto emotivo
Dal testo di Pino Carbone e Francesca De Nicolais
All'Ex Asilo Filangieri
Servizio di Maddalena Porcelli
©
Riproduzione Riservata
All'Ex Asilo Filangieri
Servizio di Maddalena Porcelli
Napoli- Nell’ambito del
programma “R-esistenza! 2 giorni di dibattiti, musica, teatro, perché un altro
modo è possibile” - il 5-6 aprile, nelle
sale dell’ex asilo Filangieri, si sono susseguite interessanti e proficue
discussioni sul tema della repressione in atto nel nostro paese nei confronti
dei movimenti in lotta che esprimono dissenso. Il ciclo d’incontri è stato
organizzato dal centro occupato Zero81, da anni attivo e operante sul
territorio campano con la realizzazione di progetti di grande utilità sociale e
dalla Balena, una comunità di lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale,
uniti nell’intento di ampliare l’orizzonte di una politica culturale mediocre,
sempre più asservita alle logiche clientelari, partitiche e del mercato.
A conclusione dell’evento è
stato rappresentato “Le luci della città”, uno spettacolo teatrale di forte
impatto emotivo, scritto da Pino Carbone
e Francesca De Nicolais, con la regia dello stesso Carbone e sapientemente
recitato dalla stessa De Nicolais. Il monologo, strutturato secondo il criterio
del flusso di coscienza, ha ricostruito gli ultimi momenti di vita di Stefano
Cucchi, massacrato di botte e ammazzato
in carcere il 22 ottobre del 2009. Il titolo ci rimanda all’omonimo film di
Chaplin, così come la scenografia, ricostruita dall’attrice contando i passi
che circoscrivono lo spazio di un ring,
dove l’incontro di pugilato tra forze impari diventa metafora dell’accanimento
violento con il quale gli aguzzini di Stefano Cucchi hanno infierito su un peso
corporeo di appena 50 kg. L’attrice è vestita da clown, si muove come tale, con
mimica perfetta, a simboleggiare quel corpo estraneo, goffo e impacciato,
confinato ai margini, reietto e senza speranze, uno dei tanti che lo Stato
abbandona prima di sequestrargli la vita. In un continuo alternarsi di ruoli-
l’attrice veste e riveste il personaggio Charlot e il giovane Cucchi- racconta
l’angoscia, la paura, la solitudine, il silenzio a cui è costretta un’anima
quando inciampa e viene catturata dal braccio della Giustizia. La riflessione
che ne scaturisce, inevitabile, necessaria, impellente, pone la questione
fondamentale del cos’è la giustizia, del come essa possa così impunemente
identificarsi con la violenza arbitraria e smettere di essere garanzia del
diritto. Parlare di carcere rieducativo esprime un ossimoro. Nelle condizioni
di degrado in cui versano le carceri, i
detenuti sono considerati una merce stipata in un contenitore da controllare
per questioni di ordine sociale, cosicché la società possa sentirsi tranquilla
perché ha ottenuto il capro espiatorio e attenuare le proprie ansie. Esse sono un non
luogo, dove la legittima insofferenza può essere sedata solo con il ricorso a
una quantità enorme di psicofarmaci. Attraverso la rabbia urlata l’attrice
evoca i desideri che qualunque condannato ha nel cuore. “Mi piacerebbe…,mi piacerebbe, da vecchio, passeggiare nel parco e dar da mangiare ai colombi; mi piacerebbe
comprare un gelato a mio nipote per renderlo felice; mi piacerebbe rinchiudere
un grillo in una bottiglia di vetro, guardarlo dimenarsi per l’assenza di
ossigeno e poi liberarlo; mi piacerebbe
diventar vecchio…” Sogna un’altalena bianca e bolle di sapone che si
diffondono in ogni dove, perché, sottolinea, sono come gli artisti di strada, nessuno può controllarli…Sta per
morire e ha solo 32 anni…
E dunque, cos’è la giustizia?
Una sorta di vendetta legalizzata? E l’autorità? Un potere coercitivo teso ad
annullare ogni coscienza che non sia conformata al modello stabilito e
funzionale al sistema? E il giudizio? Solo una sommaria condanna? Ma una
giustizia che serve il potere e che si fa tutt’uno con esso, che gestisce ciò che è
fondato sulla forza del comando e non sull’ auctoritas, che nel suo significato
originario, di augere, vuol dire accrescere, far aumentare, attraverso la cura
e l’amorevolezza, il senso di libertà e di consapevolezza di un individuo; e il
giudizio, che non è mai spietata sentenza ma piuttosto un ragionare, attraverso
il complesso dialogare del pensiero, per tentare di riordinare le forze in
contrasto e attenuare i conflitti. Tutte queste distorsioni rappresentano il
fallimento di un’intera civiltà. Comando- obbedienza- punizione: la triade del
pensiero imperante che è alla base del potere dello Stato, sospinta
dall’arbitrio, non dalla necessità. Pur volendo tralasciare quella linea di
pensiero illuminista che da Voltaire giunge fino agli scritti di Foucault,
resta il nodo cruciale di uno Stato che, pur definendosi laico, è dominato dal
pensiero cattolico, dalla qual cosa ne deriva il sostituire alla pena, intesa
come indennizzo nei confronti di chi subisce un torto, il castigo, inteso come
espiazione da riscattare attraverso la sofferenza fisica e psicologica. In
quest’ottica aberrante rientra quel rapporto di scambio- premi che risponde a
una necessità di ordine e di controllo ma che
in nessun modo può ritenersi valida per una sostanziale riabilitazione:
negoziare una parte di sé, quella più intima e profonda, che appartiene alla
sfera della dignità inviolabile di ognuno, per comprare un bene, cioè un pezzo
di sentenza, non più definitiva, ma divenuta merce, da scambiare con i
carcerieri, custodi del suo tempo. Come nell’Antigone di Sofocle, Creonte,
rammaricatosi solo alla fine di una tragedia, pur prevedibile, così lo Stato,
sempre che non abbia un barlume di lucida saggezza per evitare la catastrofe.
L’educazione dovrebbe mirare unicamente a sollecitare lo spirito d’intelligenza
critica degli uomini e invece abbiamo fondato una società che indottrina
secondo parametri di obbedienza-ricompensa che non mira all’autoconsapevolezza
ma solo al cieco asservimento.
13 aprile
2014
Commenti
Posta un commento