LA SPOSA SOLA testo e regia di Salvatore Mattiello

Al Sala Teatro Ichos dal 10 al 17 gennaio


Servizio di Maddalena Porcelli
 

Napoli - Il mito di Medea è stato, nel corso del tempo, rivisitato in tanti modi e diverse sono le interpretazioni di una figura così complessa e articolata. Lo spettacolo, ”La sposa sola”, rappresentato nella Sala Teatro Ichos in questi giorni, messo in scena dal regista Salvatore Mattiello, si avvale di veri e propri segmenti della scrittura di Corrado Alvaro, che rappresentò il dramma di Medea nel 1949, accostandola, con estrema abilità, a un’altra figura potente della storia teatrale, Filomena Marturano, anch’essa rappresentata da Eduardo De Filippo all’indomani della seconda guerra mondiale. Le due figure, entrambe incarnate dalla duttile  e poliedrica attrice Teresa Addeo, risultano legittimarsi a vicenda, attraverso parole e gesti, luci e ombre, movimenti e pause, suoni e silenzi. C’è qualcosa che accomuna le due donne, nonostante i destini opposti. Il comune denominatore possiamo scorgerlo in quella condizione di solitudine che le caratterizza entrambe, in quel dolore comune che da una dimensione privata, domestica, della Marturano, si fa grido storico, politico, sociale in Medea. Una scenografia essenziale accoglie Medea-Marturano in un viaggio interiore che sarà alla fine l’atto di accusa nei confronti di una società accecata dall’oblio e sostenuta dai falsi valori legittimati dal potere costituito. Il pubblico, con il sostegno delle fedeli nutrici, le brave Giorgia Dell’Aversano e Rossella Sabatini, sarà testimone  inquieto del disperante travaglio di queste donne,  che ci accompagneranno in un percorso di disamina profonda sulle motivazioni del loro agire, in un senso e nell’altro, a seconda delle due storie, con didascalici interventi, a guisa di coro. Sulla scena anche gli  attori, perfettamente calati nei ruoli di Giasone-Domenico Soriano e Creonte, Giuseppe Giannelli e Pietro Juliano. Il racconto si apre nel buio di una probabile stiva di un’imbarcazione, dove l’unico suono percepibile è quello del mare, che sovrasta indomito le  flebili voci del popolo. Poi l’apparizione dell’attrice, che veste e sveste l’una e l’altra donna invadendo la scena. Ciò che entrambe rivendicano è il disperante bisogno di ascolto, di accoglienza, di riconoscimento , del loro essere portatrici di valori e non meri oggetti di possesso; ciò che pretendono è l’accettazione di sé che respinge il logo di corpo abusato,  da abbandonare col mutare delle condizioni che l’hanno reso utile. Il passaggio da una dimensione privata a una pubblica scandisce il tempo e il ritmo della scrittura teatrale, fornendo, con lucida determinazione, tutti gli elementi per confrontarci con la nostra identità, mettendo in discussione i principi fondanti dell’intera storia dell’Occidente, dei suoi retaggi religiosi, dei nostri valori. Una cultura fondata sull’idea di dominio, dalla quale non può derivarne vera civiltà. L’hybris è la virtù posta alla base di un edificio mai sicuro. Oggi, come in passato, sentiamo dire” ognuno a casa sua”, dimenticando che da cinque secoli saccheggiamo l’Africa. Di fronte alla verità che Medea-Marturano non si stancheranno di ripetere, si oppone la falsità di un sistema di potere in cerca di alibi, convinto del suo essere portatore di civiltà, che avrà paura di Medea, così come Domenico Soriano ne avrà per Filomena, decisa a ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Di fronte alla prepotenza si staglia la solitudine, l’assenza di amore, il vuoto che amplifica l’angoscia, la paura, l’aggressività, la crudeltà. Come non pensare alla sistematica violenza della storia, che cancella la storia dei vinti, riscrivendone la loro esistenza? Medea è personaggio scomodo, come lo è Filomena, come lo sono i milioni di esseri umani dimenticati. La loro voce va soffocata, criminalizzata, resa impotente e il popolo va istruito dal potere affinché tutti i dannati di questa terra diventino pericolosi , siano capro espiatorio per quelle infinite paure imposte.  Così la pseudo-libertà, di cui l’Occidente va fiero,  calpesta i diritti in nome del profitto,  è disposto ad accettare i profughi purché si sottomettano ai ruoli loro assegnati e  li induce a comportarsi da annessi e non connessi. Quella paura , attraverso le parole di Medea, sono paura del confronto e rilevano la fatiscenza e la debolezza strutturale del sistema. A condannare Medea e a far vincere Filomena non sarà tanto la loro condizione di estraneità rispetto ai valori sociali imperanti, quanto il bisogno di chiarezza e di verità che imporranno. E, nel caso di Medea, la sua posizione, in una società fondata sull’ipocrisia, non potrà che nuocerle. Medea è testimonianza di un rimosso collettivo che ha affondato nell’oblio la propria coscienza. E la risposta è la solitudine: nessun Dio, nessun ideale al quale appellarsi, perché non c’è posto per chi non si piega al compromesso. Il cartello finale che chiude il sipario è emblematico “ le morti di alcuni bambini sono funzionali al sistema che abbiamo costruito”. Medea è la straniera di ogni tempo, la barbara, di stirpe non greca. E’ nei miti che si riconosce il codice genetico della civiltà, diceva Pasolini pensando a Medea, è da questi che scaturisce la storia. Il merito di questa rivisitazione sta nell’aver riportato all’attualità il tema del respingimento dell’altro, il tema del Mediterraneo, quel “mare interno”, così definito dai greci, oltre il quale era “l’Oceano”. Quel mare che diede origine alla nostra civiltà e che oggi è una barriera, un cimitero, il più grande dei cimiteri, con i suoi ventimila e più morti sui suoi fondali. Il gesto estremo di Medea è la drammatica conseguenza dell’odio razziale e dell’intolleranza umana, oggi come allora. E la freddezza di Creonte è l’immagine del potere assoluto, oggi come allora. “Chi è civile?” continua a chiedere Medea.

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Commenti

  1. uno spettacolo straordinario reso ancora più grande dalla semplicità della scenografia. Interpretazioni di tutti i partecipanti di alto spessore comunicativo.

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