“LE TRE VERITA’ DI CESIRA” - di Manlio Santanelli – regia Antonello De Rosa

Al Piccolo Bellini di Napoli dal  25 novembre  al  7 dicembre 

 servizio di Andrea Fiorillo
 
 

Napoli - Madre Natura, tanto impegnata com’è, può anche avere ogni tanto qualche piccola dimenticanza, facendo addirittura crescere i baffi sul volto di una donna.
Questo l’incipit di Santanelli, autore del testo Le tre verità di Cesira, in scena dal 25 novembre al 7 dicembre, presso il Piccolo Bellini, con Rino De Martino e la regia di Antonello De Rosa.
La storia di Cesira, popolana partenopea, discendente da una famiglia di “acquaiuoli”, che improvvisamente, durante l’età della pubertà, vede crescere dei baffi sul suo viso, elemento che determina l’unicità della donna, che comincia così a raccontare l’origine di tutto ciò ad un “improbabile” regista televisivo. Ma quelle di Cesira non sono una ma ben tre verità, quanti sono i canali della TV di stato, tre possibili spiegazioni 
    sullesistenza dei sui baffi.

Iniziano così tre paradossali racconti, che parlano di un’ esistenza priva di soddisfazioni, fatta di solitudine, di amarezza, e di sofferenza. Un dolore celato, nascosto dietro una comicità incalzante resa magnificamente da Rino De Martino, che fa dei silenzi uno strumento sottile, registicamente studiato per lasciare sospesi, in attesa di quella che poi si rivelerà la dura e drammatica realtà.

Testo scritto nel 1986 come rappresentazione teatrale a domicilio che intendeva riscoprire il piacere della comunicazione diretta tra attore e spettatore, è espressione più che mai attuale dell’esigenza di parlare di sé, dell’incapacità di sopportare lindifferenza di chi ci sta intorno. Forse, se fosse stato scritto oggi, questa donna avrebbe raccontato le sue verità nella solitudine dei social, delle chat, forse avrebbe nascosto i suoi baffi facendosi accettare ed accogliere senza, forse sarebbe stata paradossalmente ancora più sola.

Una Cesira che parla ancora a noi, e che Antonello De Rosa, nella sua regia pulita ed essenziale, ha reso drammaticamente vera e reale.

Il suo incontro con la scrittura di Manlio Santanelli. Casuale o fortemente voluto?
In realtà conosco Manlio già da molti anni, come uomo e come scrittore, ma questa è la prima volta che mi approccio ad un suo testo, che ne curo la regia. L’incontro artistico è stato determinato da Rino de Martino, grande attore con il quale mi lega una lunga amicizia, che mi ha dato fiducia e da lì che abbiamo cominciato a parlare di Cesira, quasi come se il destino volesse dirmi che era arrivato il momento di confrontarmi  artisticamente con la scrittura di Santanelli. Del grande Manlio, che io considero uno dei più grandi autori viventi, ho letto tanto ed avevo lavorato dal punto di vista laboratoriale su “Disgrazia ricevuta”; poi è arrivato questo testo che ho trovato da subito molto intrigante!

Nel testo Madre natura commette un errore facendo crescere dei baffi sul viso di una donna. Questo diventa un pretesto per parlare di altro, metafora dell'incompreso e dell'incomprensibile che ci circonda?
Credo che la Natura si diverta, giochi, ma non commetta errori. Credo che sia come il bancone di un gelataio, noi abbiamo davanti l’offerta, sta a noi scegliere il gusto. Quei baffi sono l’incomprensibile che diventa sintomo di solitudine, così come lo sono i personaggi di Ruccello o di altra drammaturgia napoletana. Lei che diventa simbolo dell’incomprensibile, quello che spaventa, che ci rende diversi, che ci fa restare soli.

L'ironia come cardine attorno alla quale la parola di Santanelli diventa materia viva. Quanto questo è presente anche nella tua regia?
L’ironia accompagna tutta la mia regia, è strumento che ti fa sorridere ma che, allo stesso modo, ti accompagna verso una riflessione, un coltello sottile, pericolosamente presente, e come tale bisogna fare attenzione a mantenersi vigili. Cesira è l’immagine dell’ironia, e Rino rende meravigliosamente questa figura, che, si racconta, ma sempre nella sua atavica solitudine.

Tre verità quelle di Cesira come tre diverse rappresentazioni di se stessa, come in una sorta di pirandelliana memoria?
Tre storie una dentro l’altra, a formare un unico monologo. Tre perché forse tutte nascondono una grande verità, che si cela dietro i racconti “leggeri”, un modo per “evitare di trovarsi di fronte alla verità più grande”, per non affrontare il dramma, per evitare di parlare della sofferenza, continuando ad ironizzare sulla diversità, cercando un terreno dove provare ad essere se stessi ed avere la capacità, la forza, il coraggio, di svelarsi.

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