Circus Don Chisciotte - testo e regia Ruggero Cappuccio

Al teatro San Ferdinando di Napoli dal 23 marzo al 2 aprile

Servizio di Carmen Lucia

 
Napoli - Passione d’assoluto, profonda inquietudine, eterna allegoria del nomadismo fantastico e smemorante del viaggio, incanti di incorrotte lontananze: sono queste le qualità del Don Chisciotte che avranno affatturato Ruggero Cappuccio, nella  riscrittura, la seconda, che ispira la sua ultima opera, Circus Don Chisciotte, una produzione del Teatro Stabile di Napoli, in scena al Teatro San Ferdinando, dal 23 marzo al 2 aprile. Il titolo ellittico ma allusivo di Circus Don Chisciotte anticipa metonimicamente il tòpos dominante dell’opera: la metafora circense traveste di fantasia onirica la fonte di Cervantes, contaminando l’immagine del cavaliere errante e il suo status di marginale o eccentrico con la figura shakespeariana del fool, “bizzarra miscela di spirito vagabondo, criminalità, erudizione e teatralità” (Peter L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 121).

In quest’opera prendono corpo le evocazioni simboliche e i segni dell’universo semantico di un’altra grande seduzione evocata nella drammaturgia di Ruggero Cappuccio, dopo Tomasi di Lampedusa e dopo Shakespeare, quella del romanzo del Don Chisciotte, che continua a originare riscritture, liberi adattamenti o infinite “gemmazioni”, come le definisce Cappuccio in un’intervista. Come in Sogno di una notte di mezza estate (con la regia di Claudio Di Palma) che appare piuttosto una “palinodia” rispetto al modello di Shakespeare, di fatto riplasmato e deformato anche per l’adozione di una lingua fortemente spuria e contaminata con le partiture sonore del dialetto napoletano di tradizione colta, così anche in questo caso il modello di riferimento di Cervantes  viene trattato come un “pre-testo” per essere poi poeticamente riformulato in una nuova scrittura dissacrante, umoristica, ma colma di una fortissima dimensione etica, in cui la disperazione per un mondo alla deriva cede il passo alla speranza. 

Non solo per Shakespeare, ma anche per Caravaggio o Tomasi di Lampedusa, la riscrittura di classici o delle biografie di autori pieni di seduzione per Cappuccio coincide con una proiezione di grande potenza evocativa (lo stesso si può dire anche per la morte del magistrato Borsellino trasfigurata nella tragedia metafisica di Paolo Borsellino Essendo Stato). I modelli dei classici di riferimento o le biografie diventano gravidi di suggestioni e fanno sì che la sua drammaturgia si configuri, per larga parte in forza di questa costante intertestualità, come una drammaturgia “di secondo grado”.  

Protagonista di Circus Don Chisciotte è Cervante, un ex professore universitario, che si è ritirato come Giuseppe Acquaviva di Spaccanapoli Times (un testo teatrale del 2016 scritto e interpretato da R. Cappuccio) ai margini della metropoli, su un binario morto, in un non-luogo, una rappresentazione iconica di ciò che l’uomo dei consumi rifiuta. Cervante rappresenta un’ipostasi o reincarnazione dell’autore spagnolo, perché l’ex professore napoletano reca traccia nella sua memoria genetica del passaggio di Cervantes a Napoli nel 1575. Geloso custode di libri, li salva dall’apocalisse come se i libri fossero, alla stregua di J. L. Borges, il suo paradiso, paradiso che non può essere sommerso dal naufragio dei valori, dalla disumanizzazione che condanna l’uomo alla brutalità in nome del progresso.

In uno dei suoi malinconici vagabondaggi, Cervante, interpretato da Ruggero Cappuccio, incontra  un «figuro magico, un essere luminoso», Salvo che ribattezzerà, Salvo Panza. All’inizio della prima scena, Salvo rievoca l’innocente bellezza del suo paese, l’arcana semplicità di una cultura popolare e preindustriale, come in una nostalgica litanìa orchestrata con intonazione piena, circolare, abbondante di timbri pastosi, viscerali e di parole unite per richiami di assonanze e costrutti formulaici:

«Ah! Paese mio bello paese, cu lu campanaro, li campane, cu l’aulive e li castagne, cu la sorgente fresca e la fonte, cu lu ruscello e li vasche, cu ll’aria fina comm’a seta de sultanessa, cu li stelle ca iocavano a toccame ca te tocco». Cervante resta quasi ammaliato dall’innocenza di Salvo, perché a un certo punto rivolgendosi a lui, mentre lo nomina suo fido scudiero, intona quasi un inno, che ricorda il makarismòs di Virgilio nelle Bucoliche:

«Tu sei un figuro magico mio Salvo. Tu sei d’un'altra età. Tu sei di quei secoli avventurosi che furono chiamati secoli d’oro.  Tu sei di quell’oro e non lo sai. Tu sei di quel tempo dove quelli che vivevano ignoravano le due parole Tuo e Mio. Comuni a tutti erano le cose in quei giorni innocentissimi».

Salvo è un “fermiere”, un infermiere che rappresenta metonimicamente un’evocazione simbolica  di un’età scomparsa, innocente e spontanea, ma ormai contaminata e avvilita dal progresso e dall’interesse.

 Insieme a Salvo Panza, interpretato da Giovanni Esposito, altri emarginati, si ritroveranno su quel binario morto, come relitti di una società malata e inconsapevole della sua crescente perdita di senso. Queste grottesche figure, pur essendo vittime di turbamenti e di emozioni che li estraniano dalla normalità del mondo, si rivelano però subito ricche di una incoercibile vitalità appena si presentano sulla scena. In un’atmosfera onirica, come epifanie tragiche sono  trasportate sulla scena da un vagone  sul binario morto: nell’ordine, un cavaliere veneziano Vinicio Meraviglia (interpretato da Giulio Cancelli), due proprietari di un ristorante caduti in rovina, Letizia Celestini e Almerindo Buonpasso (Gea Martire e Ciro Damiano) e Beatrice (Marina Sorrenti).

Sono emarginati che subiscono una deformazione grottesca: i loro visi si contorcono in smorfie, i loro occhi appaiono allucinati, i loro gesti ossessivamente ripetitivi. E gli attori sono bravissimi a tradurre con la mimica, le posture e le espressioni facciali il senso di questo straniamento che ne corrode il corpo e l’anima. Unisce queste parvenze oniriche la nostalgia dei legami perduti e l’impossibilità di ritrovarsi nelle nuove forme che la città impone loro. Il rovello mentale, le asfissianti ripetizioni di gesti ne comprimono le figure in maschere grottesche, ma sotto il cocente rasoio dell’abbrutimento della follia si scopre la loro grande umanità. Tutti insieme ritroveranno un’armonia esemplare sui binari di quel non-luogo in cui inizieranno  un’immaginaria “rivoluzione”, spronati da Michele Cervante che li coinvolgerà in un viaggio fantastico e surreale, nell’innocenza delle sue terrene e metafisiche peripezie.  

Come in altre opere di Cappuccio, ritornano gli assilli esistenziali del sogno, della morte, ma qui più che in altri testi i temi della necessità di sondare il mistero del tempo, i fatali rituali della morte si mostrano declinati in una dimensione umanitaria ed etica molto più forte. Nella tragica utopia di Cervante sembrano riecheggiare le parole di Pasolini nel profetico articolo del 1973, intitolato La scomparsa delle Lucciole: la città reca impressi i segni della degradazione nel nome del progresso, degradazione che coincide con la disumanizzazione dei rapporti umani e con la perdita dei valori identificati nel patrimonio culturale dei libri. Il passaggio dal paese alla campagna, com’è evidente nel ruolo di primo piano di Salvo Panza, scosso come gli altri personaggi da pulsioni rimosse e impulsi irrealizzati, provoca la “perdita” dei tradizionali sistemi di ritualità delle culture popolari, come la perdita della costruzione del fantastico e della tradizionale alfabetizzazione: da qui la necessità della nostalgica rievocazione del paese natio, che si traduce con l’evocazione di oggetti-senhal come la «scalella», o il «pozzo con il serpente». Questi oggetti, evocati ossessivamente da Salvo, acquisteranno sulla scena una grande potenza  simbolica quando saranno riformulati nei suoni delle lettere: il mistero poetico di tutta l’opera si concentrerà proprio nel momento in cui l’ultimo degli ultimi imparerà a leggere, grazie alla mediazione di Cervante che lo vorrà «dottrinare nella lettura […] perché - come gli dice - mai nessuno, quando sarai governatore possa contravvenire alle leggi che scriverai. Né mai nessuno possa farti raggiro mostrandoti uno scritto d’inganno». Tutto questo è possibile solo nel parossismo e nella dilatazione visionaria di Cervante, nell’innocenza delle sue terrene e metafisiche peripezie che  si coniugano con la figura del professore che tanto ricorda tanti audaci napoletani, come il regista e musicologo De Simone o l’avvocato e filosofo Gerardo Marotta.

Un discorso a parte merita  la lingua. L’aspetto più dirompente dell’opera è infatti proprio nello scontro tra i diversi linguaggi: il linguaggio di Cervante gravido di iperboli, metafore  baroccheggianti e di un lessico tutto concluso nel campo semantico della guerra e dell’onore  («Ed ora hai da sapere che io nacqui per favore del cielo in questa età nostra di ferro per far rivivere quella dell’oro o l’età dorata siccome noi siamo soliti nomarla. Quegli son io a cui riserbati sono i perigli, le alte imprese di memorabili avvenimenti; quegli son io cui si aspetta di far venire a nuovo rinascimento i tempi della Tavola Rotonda, dei dodici paladini di Francia, dei Nove della Fama») viene come abbassato e desublimato da  Salvo, così come succede nelle schermaglie dialettiche tra l’irriverente Pulcinella e il vanaglorioso capitan Matamoros, erede del plautino miles gloriosus. E come nella Commedia dell’Arte e in Pulcinella, tutto il dialogo tra Cervante e Salvo si basa sui meccanismi del  comique du mots” e sulle fantasie verbali del quiproquo, dei doppi sensi, delle ambiguità semantiche e delle storpiature ( si pensi alle battute riferite ai merli delle torri, scambiati da Salvo per uccelli), tutti mezzi stilistici usati proprio come nelle commedie del ‘500, per segnare  le frontiere dell’ incomunicabilità e dell’incomprensione:

Cervante: La speranza della fama tiene alta la fronte.

Salvo: No io per la fama tiempo de na mez’ora chiavo de faccia ’nterra.

L’ agonismo tra i due linguaggi, il linguaggio ornato di Cervante e il linguaggio definito agreste di Salvo, che si esprime in una lingua ruvida, ibrida, viscerale, è tutto giocato sui  valori fonici e musicali della parola.  Numerose sono le parole rimanti con rime baciate, le allitterazioni, le assonanze, con continue ripetizioni soprattutto nell’adibizione di una tensione contrastiva, vischiosa tra l’italiano e il dialetto, da cui scaturisce con urti stilistici la comicità surreale della pièce. Nella magmatica genealogia di scrittori evocati da Cervante per costruire un ponte metaforico e reale sul lago dell’oblìo (richiamato anche da un pannello del vagone su cui è impressa l’immagine della tomba del tuffatore conservata a Paestum) quasi tutti i nomi subiscono una deformazione parodica nella pronuncia incerta di Salvo: Lorca diventa l’orca, Saramago diventa sarà mago.

 A ciò si aggiunga quello che appare un vero e proprio mosaico pluristilistico, una costante vocazione di tante opere di Cappuccio e anche dei suoi romanzi: quel particolare mélange espressivo che spazia dal napoletano, al veneziano e al siciliano (lingue di scena per eccellenza), che si contaminano con lingue anche lontane dal punto di vista diatopico come l’inglese e lo spagnolo.  La densità, la polisemia e l’affinità fonica tra le parole esalta così l’attrito dei significati, dietro la somiglianza ingannevole dei significanti con il ricorso a tante curiose paronomasie. 

La scenografia traduce con pareti metalliche la fredda  presenza della metropoli e “l’età di ferro” contro cui vuol combattere Cervante; i costumi e gli oggetti di scena come per esempio il cavallo sostituito da un carrello d’acciaio, danno corpo a quel senso di straniamento, di follia e isteria che appartiene alla sfera della psiche e del corpo delle grottesche maschere dei protagonisti. Tutto è spinto al limite del parossismo come del resto nella fonte del romanzo.

 Infine le straordinarie musiche, scritte dal compositore palermitano Marco Betta, che traducono l’esuberanza e la grande pietas dell’eroe di Cervantes con forti e densi accenti di vibratilità sonore di rarissima intensità.

Gli esseri multipli privi di baricentro, gravidi di un’  indefinita smania di tutti i possibili altrove, sono in fondo gli esseri luminosi, come le “lucciole” di Pasolini, simboli di una cultura popolare  e di un sistema di riferimento ormai scomparso: ritrovare le lucciole, come ricorda Pasolini, significa ritrovare la propria capacità di sentire, ritrovare la tensione ideale verso un’umanità che può conquistare la sua “isola” come Salvo Panza solo attraverso la potenza salvifica della parola e dei libri.


 ©RIPRODUZIONE RISERVATA 

Commenti