“MACBETH” – Ideazione e regia di Brett Bailey – Musiche di Fabbrizio Cassol dal “Macbeth” di Giuseppe Verdi
Al Teatro Politeama di Napoli per il Napoli Teatro
Festival Italia il 24 e 25 giugno
Servizio di Antonio Tedesco
Napoli – Se è vero, come diceva Calvino, che “un
classico è un testo che non finisce mai di dire ciò che ha da dire”, è anche vero
che sa dirlo in forme e in modi completamente diversi, pur conservando, e a
volte esaltando, la sua capacità di impatto e la sua forza espressiva.
Ci è capitato di vedere due (ri)letture del Macbeth
di Shakespeare a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, e constatare come
questo testo, quasi fosse un format, quanta forza esprimesse, pur calato in due
contesti completamente differenti e lontani l’uno dall’altro. Ci riferiamo ad
una versione realizzata per la televisione nel 1982 dal regista ungherese Bela
Tarr (proiettata nel corso di una serata a lui dedicata nell’ex Asilo
Filangieri e intitolata “L’Apocalisse Espansa”), tutta girata nei sotterranei
di un castello di Budapest e divisa in due lunghi piani sequenza, giocata per
la gran parte sui primi piani dei volti degli attori, quasi a scavarne le
coscienze e dove la visionarietà e la follia che investe i due protagonisti,
Macbeth e la sua Lady, è tutta interiorizzata, tutta giocata “dentro” il loro
stesso delirio di potere, a rappresentare una condizione umana che non sa
rassegnarsi alla fragilità delle proprie illusioni e ne resta ineluttabilmente
travolta e schiacciata. Qui il dramma storico si cala in una tragedia umana
universale.
Ma pochi giorni dopo ci ritroviamo a confrontarci
con lo stesso testo che, dai sotterranei di un castello di Budapest si
trasferisce nel cuore dell'Africa Centrale, in una regione del Congo, e qui,
pur conservando inalterata la successione degli eventi, si fa specchio di una
tragedia epocale che si trascina da secoli e dove i personaggi trascendono se
stessi e diventano emblemi di un'idea (e di una politica) di sfruttamento e di
sopraffazione che, dal colonialismo ai cosiddetti “signori della guerra”, ha
assunto varie forme, ma sempre egualmente devastanti. Si ispira, in
particolare, alla versione musicale di Giuseppe Verdi questo Macbeth che il drammaturgo e regista
sudafricano Brett Bailey ha presentato al Teatro Politeama nell'ambito del
Napoli Teatro Festival, con una compagnia di attori-cantanti tutti provenienti
da quelle stesse regioni dell'Africa dove la tragedia è stata ambientata. E
dove hanno subito tutti, in vario modo, conseguenze di quella particolare
condizione storica, politica e sociale. Cosa che conferisce un'ulteriore nota
di verità alla messa in scena che, lontano dall'essere una scolastica
riproposizione di un classico stranoto, mostra come questo stesso classico
abbia in sé la forza dell'archetipo capace di modellarsi intorno alle più
svariate realtà e farsene illuminante chiave di lettura. Basti dire che le tre
streghe che predicono a Macbeth la sua gloria, ma anche la sua rovina, sono
rappresentate qui come individui in completo grigio e casco, ognuno portatore
di un elemento simbolico a richiamare lo sfruttamento delle ricchezze naturali
e delle immense risorse minerarie di cui quelle terre sono ricche e di cui
l'Occidente (e non solo) industrializzato si appropria a piene mani per
alimentare le sue produzioni e i suoi mercati. Sono loro che lusingano il
Macbeth-Signore-della-Guerra di turno perché illudendosi di gestire il potere
faccia, in realtà, il gioco delle cosiddette “grandi potenze” e delle relative
multinazionali ad esse collegate. Ma insieme a Macbeth è tutto un popolo con la
sua cultura e le sue tradizioni a precipitare nella tragedia.
Detto
questo bisogna aggiungere che lo spettacolo è estremamente piacevole, ricco dei
colori e degli umori di quelle terre e di quei popoli, e che il regista ha saputo
ben dosare, anche grazie all'uso sapiente di luci, pannelli e diapositive, gli
effetti spettacolari con l'impegno politico e civile.
Ben
cantato e recitato, con le musiche rielaborate da Fabbrizio Cassol e con in
scena l'orchestra diretta da Premil Petrovic, lo spettacolo si è meritato i
lunghi ed entusiasti applausi del pubblico, a dimostrare, ancora una volta, che
ciò che conta in teatro è la forza delle idee più che lo sterile dispiegamento
di una massiccia opulenza produttiva.
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