Ritorna in occasione del trentennale della Sala Assoli “Mangiare e bere. Letame e morte” di Davide Iodice con Alessandra Fabbri

Servizio di Anita Curci


“Mangiare e bere. Letame e morte” è l’allestimento che Davide Iodice porta fino a domenica 4 ottobre alla Sala Assoli nell’ambito del cartellone organizzato dai padroni di casa Angelo Montella e Igina Di Napoli per celebrare il trentennale di uno spazio diverso, dedicato alla ricerca e alla sperimentazione in una zona difficile come i Quartieri Spagnoli. Il programma, che è anche una ricca festa, è cominciato il 27 settembre scorso con la proiezione di “Teatro di guerra” di Mario Martone, e proseguirà fino al 24 gennaio tra teatro, cinema, dibattiti e omaggi ad artisti che proprio in quella sala hanno lasciato un segno, come Antonio Neiwiller, Annibale Ruccello, e Leo De Berardinis.
“La Sala Assoli - afferma Davide Iodice -  deve continuare ad essere  il luogo anarchico di sempre, libero e in qualche senso controcorrente, ma con una legittimazione più ampia. È  uno spazio troppo importante per il teatro italiano perché non sia sostenuto, specie nei momenti di grande difficoltà. Il trentennale è un’occasione per auspicare un progetto di rilancio agganciandolo ad altri spazi simbolo di questa città. E penso, per esempio, all’ex Asilo Filangieri. Bisogna fare rete intorno a iniziative preziose che comunque esistono a Napoli”.
Anche lei, come altri artisti che hanno fatto la storia dello spazio ai Quartieri Spagnoli, partecipa alla festa di compleanno con uno spettacolo. Qual è stato il suo rapporto con la Sala Assoli?
“Si può dire che io per un periodo della mia vita abbia vissuto lì. Ho diretto il Teatro Nuovo per cinque anni dal 1995 al 2000, assieme a Igina di Napoli e Angelo Montella. Ci sono arrivato giovanissimo e in un momento molto difficile per il teatro, mentre quella sala si apprestava a diventare il cuore pulsante di una serie di attività. Era il periodo in cui, dopo anni di assenza, ritornavano Teatri Uniti; in cui giravamo, ricordo, ‘Teatro di guerra’; e in cui ritrovavamo artisti come De Berardinis e Carlo Cecchi. Fu proprio lui a definire la sala una factory, un’officina creativa ricca di energie, punto di riferimento per una serie di iniziative. Un fermento così non l’ho più ritrovato né in città né in Italia… un fermento da cui sono poi nate altre storie, rassegne, rapporti col territorio. Erano anche gli anni in cui lanciavamo il Progetto Chance per i ragazzi del quartiere. La sala Assoli è un posto di resistenza culturale e va sostenuta pensando ad attività pedagogiche e formative oltre che spettacolari, che non rappresentano altro che il nostro capitale”.
Parliamo di “Mangiare e bere. Letame e morte”.
“È uno spettacolo che fonde vari linguaggi. Come sempre nei miei lavori c’è prima la necessità di dire qualcosa. Alla base di ognuno campeggia l’incontro con il gruppo; da lì viene fuori il linguaggio specifico della comunicazione. In questo caso c’è Alessandra Fabbri,  mia collaboratrice storica. Performer, attrice, danzatrice e anche ricercatrice, a suo modo, del mondo animale, Alessandra mette insieme diversi elementi, la danza ma anche l’etologia, una passione che ci accomuna”.
Cosa si vedrà in palcoscenico?
“Un lavoro sull’animalità del performer, una sorta di pet therapy, terapia con l’animale che la performer fa davanti al pubblico. Il pretesto narrativo è semplice, la storia di due pappagallini. Alessandra vive in una casa di campagna dove gli animali hanno libero accesso. Partiamo da piccoli episodi e dalla mimesi con gli animali, metafora dei bisogni primari che non sono soltanto mangiare bere letame e morte appunto, ma anche la necessità di essere compresi; riconosciuti come umani così come la pappagallina della storia ha il bisogno di essere riconosciuta dal suo compagno”.
Da giovane voleva fare l’etologo… gli animali sono spesso presenti nei suoi allestimenti.
“In tutti i miei lavori ci sono presenze vive di animali oppure effigi e maschere. L’animale col suo sguardo aperto, libero, è un totem; la sua istintività è una delle prime indicazioni che do ai miei attori”.
Da quali ispirazioni viene fuori questo spettacolo?
“Dalla volontà di fare un lavoro con Alessandra. Poi, come sempre, mi faccio ispirare dalla natura dell’interprete che ho a fianco. Qui c’è un vissuto biografico fuso con un intendimento più poetico. In questo caso lo spunto mi è stato offerto da Alessandra mentre eravamo in Spagna in occasione di un workshop, in un momento per lei molto delicato perché le era morta una pappagallina. E ogni volta che me ne parlava piangeva; le sue lacrime mi commuovevano, anche perché vedevo la sua reazione in maniera esagerata. Osservare una donna matura piangere per un pappagallino mi faceva capire che dietro c’era tanta fragilità. Su quei sentimenti abbiamo cominciato a lavorare alla performance, che è anche una sorta di omaggio a nomi importanti della danza come Martha Graham”.
Che altro prepara per la prossima stagione teatrale?
“Da anni faccio un lavoro di ricerca sulle aspirazioni degli emarginati, che ha prodotto due lavori a Napoli. La prima tappa del progetto si intitola ‘La fabbrica dei sogni’, è un lavoro itinerante sulla raccolta dei sogni, appunto. Partito da qui ora lo porto in Europa, sarò in Svezia a Göteborg con il Folkteatern e con gli homeless svedesi. Sono tutte opere prime in una indagine sul fallimento del contemporaneo. Il lavoro si chiamerà Drömmar. Riprenderò, poi, “Euridice e Orfeo”, la prima collaborazione artistica con mia moglie Valeria Parrella”.


© RIPRODUZIONE RISERVATA




Commenti