“C’è del pianto in queste lacrime” drammaturgia di Antonio Latella e Linda Dalisi Regia di Antonio Latella

Al Teatro San Ferdinando di Napoli dal 13 al 18 ottobre

Servizio di Antonio Tedesco


Napoli – La vera differenza non sta nell’intreccio, ma nel linguaggio. Circoscrivendo la sua analisi ad una realtà espressiva tipicamente napoletana come la sceneggiata Latella, con C’è del pianto in queste lacrime, di cui oltre che la regia ha curato la drammaturgia con Linda Dalisi, spinge lo sguardo fino ad allargarlo all’intero universo del narrare e del rappresentare.
Partendo dagli stereotipi più eclatanti della sceneggiata la regia di Antonio Latella lavora sull’eccesso, sul grottesco e su delle reiterazioni ossessive che si spingono fino al parossismo. Un procedimento che tende a moltiplicare i sensi, finendo in realtà con lo svuotarli, fino a fissarli nel finale in iconici busti di gesso disposti come un presepe nella loro inanimata immutabilità. Personaggi trasformati in “enormi insetti immondi” (scene e costumi sono di Simone Mannino e Simona D'Amico), come il Gregor Samsa de La Metamorfosi di Kafka e che sembrano zampettare disperatamente nel vuoto nel tentativo di ritrovare una posizione dignitosa. Ma la fuga di sensi e significati giunge fino ad Amleto e a Shakespeare, più in generale, come ad unire i due estremi sideralmente opposti, di una sola parabola. Il linguaggio, appunto, fa la differenza, ma la storia che raccontano potrebbe essere sempre la stessa. Dove persino un personaggio come Edward Mani di Forbice, di bartoniana memoria, che, in posizione sfalsata, sembra essere quasi il motore dell’azione, si direbbe un innesto a prima vista incongruo, rivelandosi, invece, un nuovo simbolo, quello della marginalità del diverso, o forse della normalità del mostro.
La sceneggiata, dunque, pure nel suo essere così caratterizzata e culturalmente circoscritta, si mostra capace di risucchiare tutto l’immaginario che la trascende fino ad assurgere, quasi, a paradigma universale. Ma in essa, nella visione di Latella, le istanze del rappresentare (e i rimandi alla realtà rappresentata) sono contenute in uno spazio ristretto, una sorta di piaga infetta (da qui i personaggi-insetti-parassiti) in cui ogni residua nobiltà legata proprio all’atto del rappresentare, si consuma, si logora, marcisce. Shakespeare e Amleto ne vengono travolti e risucchiati a loro volta. Il linguaggio, brutalizzato e spogliato da ogni residuo intento poetico, svela la cruda natura dell’azione. La cosiddetta “cultura alta” implode nel suo contrario e si spoglia degli orpelli di cui ama adornarsi per celare (o forse nobilitare) gli animaleschi istinti che muovono le gesta dei suoi personaggi.
Una, per molti versi culturalmente provocatoria, chiusura del cerchio, che già nel 1973 Leo De Berardinis e Perla Peragallo avevano a modo loro operato in King lacreme Lear napulitane, messo in scena con il Teatro di Marigliano, dove la sceneggiata più becera si ibridava con la tragedia più alta, solo per scoprire che gli ingredienti di base erano gli stessi (un complesso intreccio di emozioni e sentimenti) ma diversamente elaborati, tanto da consentire alla più aristocratica “cultura alta” di scacciare (in malo modo) dalla scena quella popolare, con tutto il suo carico ad un tempo reazionario ed eversivo.

La ricerca di Latella si esercita qui, come negli altri suoi lavori, su tutti gli aspetti del linguaggio teatrale. I segni scenici (scenografie, uso delle luci e delle musiche, movimento degli attori, stili di recitazione) interagiscono con pari rilievo a produrre un unico, efficace e coerente risultato espressivo. Così che gli undici, bravissimi, attori sembrano formare con tutti gli altri elementi suddetti un unico corpo, una macchina teatrale complessa e ben oleata che non teme di forzare i limiti per offrire allo spettatore nuove visioni, nuovi punti di vista inattesi e originali. Come sempre il buon teatro dovrebbe fare.


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