“FERDINANDO” - di Annibale Ruccello – regia di Nadia Baldi
Al
Teatro San Ferdinando di Napoli dal 10 al 15 gennaio
Servizio
di Antonio
Tedesco
Napoli – E’ indubbio che Ferdinando, il testo di Annibale Ruccello, vincitore del Premio
IDI, che debuttò, per la regia dello stesso autore nel 1986, si è affermato in
questi trenta anni come un classico della drammaturgia contemporanea. Allo
stesso tempo è rimasto, per certi versi, fermo, pur nelle varie riedizioni che
si sono avute nel tempo, a quella prima forma teatrale che, anche per la
prematura e tragica scomparsa dell’autore a pochi mesi dal debutto, ha assunto
nel tempo un carattere quasi iconico. Ora, si sa che la forza e la tenuta di
un testo teatrale che, alla prova del tempo, possiamo dire assuma i connotati
di un “classico”, si misura anche, e forse soprattutto, più che sulla sua
pedissequa riproposizione testuale, sulla capacità di reggere, ma anche di
stimolare, nuove letture ed interpretazioni, che ne rinnovano e ne riaffermano,
a volte anche in ambiti e contesti diversi, il suo valore e la sua capacità di
“dire”.
Così, con un’operazione coraggiosa e,
diremmo, riuscita, Nadia Baldi ha affrontato questa messa in scena non facile,
non solo per i suoi contenuti, ma soprattutto per quel valore iconico cui si
accennava sopra, e l’ha rinnovata dall’interno, lasciandone immutati i forti e
intrinseci valori metaforici, ma lavorando sulla forma scenica e rigenerandola
radicalmente. Ha intelligentemente schivato ogni tentazione naturalistica
(molto presente nell’allestimento classico originario) e ha usato il testo come
una partitura su cui muovere i suoi attori-figurine, nel senso che i
personaggi, sia pur pervasi di ribollente umanità, si rivelano in realtà figure
residuali di un mondo ormai scomparso, che tentano ostinatamente una lotta
impari e perduta in partenza con il “nuovo che avanza”, che pur senza
dimostrarsi di certo migliore, è diventato ormai saldamente padrone del campo.
Così Donna Clotilde, baronessa
confinata da anni nella sua casa di campagna, o meglio, nel suo grande letto,
per fuggire da un mondo che non riconosce più, a dispetto della sua dichiarata
sfinitezza fisica è, in realtà, una leonessa che da quel letto-gabbia, si agita
e ruggisce contro tutto e tutti, bramando una libertà e un potere che ormai non
le appartengono più. A questa sua compressa e repressa vitalità si oppone la
meccanicità, quasi da statuine animate fissate per sempre nella loro
forma-ruolo (che si scomporrà solo nelle battute finali), della
serva-carceriera-cugina Gesualda, e del mellifluo parroco Don Catellino.
Tutta la prima parte del lavoro è
giocata proprio su questo contrasto tra la meccanicità quasi automatica di
questi ultimi due personaggi, e il selvaggio, incessante, a tratti rabbioso,
agitarsi della baronessa, nel suo letto-gabbia dal quale è come se non
riuscisse a uscire, frustrata nel suo
desiderio inconfessato, eppure straripante, di “sbranare” (seppur a parole, con
la sua lingua velenosa) il mondo intero.
E poi, come si sa, arriverà il
giovane, efebico e seducente Ferdinando a scompigliare le carte e a far
esplodere tutte le contraddizioni di questo microcosmo che contiene in sé
compressi, però, tutti gli elementi di
mondi più vasti, sia quelli che arretrano che quelli che avanzano.
La messa in scena è condotta, così,
con ritmo mai calante, come fosse una danza estrema, un rito di passaggio verso
la fine definitiva dove, dopo un’illusoria e fugace rinascita, forse anche la
rabbia e il risentimento sbollono per lasciare definitivamente posto ad una
triste, ma consapevole, rassegnazione.
Tutto questo non viene mai proclamato apertamente,
ma traspare stilizzato nelle forme sceniche, nelle geometrie stilistiche, nel
gioco quasi pittorico delle luci, in una gestualità antinaturalistica ed
evocativa allo stesso tempo (il gioco è dichiarato apertamente: si finge di
prendere bicchieri e bere, di prendere libri e di leggere, di prendere penne e
di scrivere ecc., quasi fosse una “danze macabre”, appunto, un turbinoso
affannarsi di ombre che lentamente svaniscono).
All’interno di questo coerente quadro
registico il tutto assume maggior efficacia grazie all’ ottima prova offerta
dagli attori, a partire da una strepitosa Gea Martire che, nei panni della
baronessa Clotilde, profonde energia e impegno fisico in quantità, oltre alla
sua ormai nota sapienza recitativa. Così come altrettanto efficace è Chiara
Baffi che, con impercettibili slittamenti interpretativi scivola dalla
meccanica automaticità delle azioni quotidiane, alla sottile e determinata
perfidia che emerge dal profondo dell’animo del suo personaggio, Gesualdina.
Mentre Fulvio Cauteruccio, con il suo napoletano imbastardito da una forte
tonalità calabrese, che assume un significato proprio e originale in un testo
principalmente giocato sui contrasti delle lingue, rende bene l’ambiguità
(anch’essa quasi automatica, dato il ruolo) di Don Catellino. Volenterosa la
prova del giovane Francesco Roccasecca, che nel personaggio di Ferdinando
sparge intorno a sé lampi di aggressiva e seduttiva vitalità. Le scene,
evocative e funzionali, sono di Luigi Ferrigno e ben si prestano all’espressivo
gioco di luci curato dalla stessa regista, Nadia Baldi, che comprende anche la
proiezione di alcune immagini in determinati momenti dello spettacolo. Dei bei
costumi firmati da Carlo Poggioli vogliamo segnalare almeno la lunghissima,
smisurata camicia da notte nella quale, gabbia nella gabbia, si dibatte donna
Clotilde nella prima parte dello spettacolo, e che, calando dall’alto, tornerà
a imprigionarla, forse definitivamente questa volta, nella scena finale, come
fosse una camicia di forza dell’anima.
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