“L’ARMATA DEI SONNAMBULI”- Dall’omonimo romanzo di Wu Ming - regia Pino Carbone ideazione di Andrea de Goyzueta - Debutto nazionale
Nel
Cortile d’Onore del Palazzo Reale di Napoli, per il Napoli Teatro Festival
Italia
il
17-18 giugno 2017
Servizio
di Maddalena Porcelli
Napoli - Cimentarsi nella
riduzione di un’opera letteraria di circa ottocento pagine, per tradurla in
drammaturgia e in azione scenica, è un’operazione tutt’altro che semplice,
della quale bisogna dar merito all’intera compagnia che si è impegnata a realizzarla,
con un esito che risulta valido e efficace nel riflettere lo spirito che aleggia nella scrittura dei Wu Ming. D’altra
parte, è il testo stesso a essere concepito e strutturato in forma di
rappresentazione teatrale,con la sua Ouverture, le sue scene, i suoi atti. Si
tratta dello spettacolo, “L’armata dei
sonnambuli”, tratto dall’omonimo romanzo di Wu Ming, edito nel 2014 per
Einaudi, che ha avuto il suo debutto nazionale nell’ambito della X edizione del
Napoli Teatro Festival Italia, il 17 e il 18 giugno, nel cortile d’Onore del
Palazzo Reale. Prodotto dall’Ente Teatro Cronaca Vesuvio,esso nasce da un’idea
e un progetto di Andrea de Goyzueta, attore egli stesso, insieme a Francesca De
Nicolais,Michelangelo Dalisi, Renato De Simone e Rosario Giglio. La
drammaturgia è affidata a Linda Dalisi, mentre la regia porta la firma di Pino
Carbone.
La scena si apre con la figura
di un’enorme, gigantesca testa deposta sopra un’impalcatura di ferro- la
ghigliottina- che occupa l’intero
palcoscenico, significante simbolico dell’intera rappresentazione,
mentre il proscenio è tempestato di microfoni che evocano le migliaia di voci
di una città in rivolta. Il tema
riguarda la Rivoluzione francese, nella fattispecie gli anni che seguono alla
decapitazione di Luigi XVI, un tempo di
fermento pregno di conflitti, tra gli eventi più sconvolgenti della
storia occidentale. I protagonisti, che per comodità considereremo i
principali, intorno ai quali si costruirà il racconto, sono cinque, in realtà sono
tantissimi, anche se non tutti caratterizzati e spesso solo abbozzati, ma fondamentali nella descrizione di un quadro
complesso,nel quale ad affermarsi è la presenza di un inconscio collettivo che
muove il tutto. Una di essi è Marie Nozière, la sarta del popolo, che fa della
rivoluzione lo strumento per la
rivendicazione dei diritti delle donne che si ribellano al potere di un
dominio tutto maschile, che intima loro di restare al riparo, chiuse all’interno
delle mura domestiche. Un ruolo affidato alla bravissima Francesca De Nicolais
che si sposta annaspando di continuo, in modo compulsivo, con i muscoli tesi e
palpitanti, da un microfono all’altro, a rappresentare la voce di tutte le
donne che combattono per la libertà. Sarà lei a rivendicare la necessità di combattere nelle strade,
perché dice” Senza noi donne, la Rivoluzione non sarebbe mai stata possibile.” Il
suo corpo è più eloquente di qualsivoglia parola,in esso troviamo inscritte le
speranze,le paure, le angosce,le frustrazioni e le delusioni rispetto all’illusione
di poter imprimere un cambiamento di rotta negli eventi che vedranno
prefigurarsi, di lì a poco, la sconfitta degli ideali rivoluzionari. Sarà lei a
disvelare la teatralità e la spettacolarizzazione dei politici accaparratori,
che siedono al tavolo della Convenzione come fossero attori protagonisti,
mentre ingiustamente relegano il popolo al ruolo di spettatore passivo. Accanto
a lei suo figlio Bastian e Orphée D’amblanc, un medico mesmerizzatore, che avrà
il compito di addentrarsi nelle regioni periferiche della Francia più reazionaria, per
indagare su misteriosi casi di sonnambulismo. E poi Leo Madonnét, un attore italiano,
discepolo di Goldoni, il quale, perduto il proprio ruolo in teatro, indosserà
la maschera di Scaramouche e diventerà un combattente per la Rivoluzione. Il
suo palcoscenico diventerà l’intera Parigi e i suoi spettacoli più emozionanti
saranno quelli reali, in cui si vedranno cadere le teste dei nemici della rivoluzione. Infine il
Cavaliere d’Yvers- un Michelangelo Dalisi al pieno della sua maturità e
sapienza attoriale-, il potente esperto
di tecniche del sonnambulismo, che sotto il falso nome di Auguste Laplace
guiderà l’armata dei sonnambuli, reclutata nel manicomio di Bicêtre, allo scopo
di liberare il figlio del sovrano decapitato. Lo sguardo con cui s’indaga la
storia è uno sguardo tutto interno all’osservatorio subordinato alle asperità
delle tensioni sociali. E’, per così dire, uno sguardo inclinato, che riesce a
decentrarsi da quel punto di vista codificato, per aprirsi a spazi altri di
riflessione. Questa caratteristica deriva nei Wu Ming dall’essere essi stessi
un collettivo, di agire secondo un io collettivo, capace in tal modo di
ampliare il raggio dei punti di vista. La Rivoluzione che si descrive non è
quella dei manuali accademici, semmai diventa una decostruzione del mito
riduttivo che permea la razionalità dell’Occidente. Ciò che si rappresenta è
essenzialmente l’inconscio, quello spazio, cioè, non soggetto al controllo
razionale, che procede sull’onda di emozioni
non facilmente controllabili. L’attenzione si concentra soprattutto su quei
soggetti marginalizzati, esclusi dalla Storia dei grandi eventi, che
rivendicano la propria presenza sulla scena. E’ chiaro che l’empatia nei
confronti di chi subisce gli effetti di una rivolta sulla propria pelle è
evidente, ma la capacità di spostarsi da un personaggio all’altro,
dall’oppresso all’oppressore, senza esprimere giudizi, lasciando che il pubblico s’immerga in quella
complessità, diventa per noi a tal punto destabilizzante da imporci una
riflessione costante. E’ la sfida alla verità univoca della Storia. Attraverso
figurazioni parodistiche, talvolta grottesche, si dipanano le storie sottratte
alla Storia,quella Storia letta sempre come forma di superamento dei conflitti,
contestualizzata per essere assunta come verità scientifica e sempre volta alla
falsa pacificazione sociale. La storia rappresentata, come nell’intenzione dei
Wu Ming, ci viene restituita come campo irrisolto, costellato di lacune e
pertanto capace di aprirsi a nuove interpretazioni. Se dunque alla Rivoluzione seguirà la Controrivoluzione,
essa stessa rivoluzionaria, in senso oppositivo, come afferma il barone
d’Yvers, alla narrazione dominante si contrapporrà la storia di ciò che non è
stato detto. Di un potere mai sconfitto e di una guerra mai conclusa, di una
trasformazione del potere dominante che cambia le sue forme ma non il contenuto
delle sue intenzioni. Tutto ciò sarà descritto attraverso una concatenazione di
eventi caotica, capace di farci riflettere sul contemporaneo e sulla sua
drammaticità. Il barone d’Yvers è la chiave per comprendere il ruolo che il
potere assume, un potere non più spavaldo e violento, come quello che lo ha
preceduto, ma tutto moderno, composito,organizzato con i suoi strumenti di plagio delle menti, indolore, ma forse ancor più pervasivo. La freddezza
calcolatrice che trasuda dal timbro stesso della sua voce, roco e modulato, ne
fa una figura atemporale, eterna,mossa sempre e solo da quella hybris su cui si
fonda l’intera cultura occidentale, per nulla disposta a cedere i propri
privilegi, che utilizza qualsiasi sotterfugio per autoconservarsi. Sarà lui a
spiegarci e renderci chiaro un concetto del tutto contemporaneo, nonostante
esso affondi le sue radici in un passato arcaico. L’armata dei sonnambuli, il
popolo assoggettato non più con la forza, ma attraverso il condizionamento
delle menti - si pensi all’omologazione frustrante, propria della nostra epoca,
a quello che Pasolini definiva fascismo antropologico - è pronta a distruggere
tutti gli ideali perseguiti in un arco di tempo infinitesimale, per restituire
al potere anche quel minimo che aveva conquistato al prezzo del sangue versato.
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