"Don Pasquale" - opera buffa in tre atti di Giovanni Ruffini, musica di Gaetano Donizetti - Regia di Roberto De Simone


Servizio di Francesco  Gaudiosi



Napoli-  Si chiude con il Don Pasquale il San Carlo Opera Festival, rassegna di opera e di balletto giunta quest’anno alla sua seconda edizione e che ha accompagnato il pubblico del San Carlo dall’undici luglio al tre ottobre. Un’idea da elogiare, quella del San Carlo, perché rende fruibile la partecipazione all’opera lirica anche alle migliaia di turisti che ogni estate accorrono nel capoluogo partenopeo e che per troppo tempo hanno potuto ammirare il San Carlo solo come “monumento”, sito di interesse nazionale e mai come tempio della musica classica nazionale e internazionale. Non sorprende infatti che alla prima di Don Pasquale, tenutasi il 26 settembre, la maggior parte del pubblico sia perlopiù composta da stranieri e da turisti che accorrono con piacere e con interesse ad ammirare quella che un turista di Monaco di Baviera ha definito al sottoscritto, prima dell’inizio dell’opera,“the most beautiful opera house in the world”, il più bel teatro d’opera al mondo.
In questo clima prende vita il dramma buffo in tre atti del Don Pasquale, di Giovanni Ruffini e musicato da Gaetano Donizetti, con libretto di Gianfelice Romani. Un allestimento del Teatro San Carlo che vede la prestigiosa regia di Roberto de Simone e la direzione del maestro Giancarlo Andretta. A ciò, si aggiungono i magnifici costumi della De Vincentiis, che oramai nel panorama teatrale nazionale non ha bisogno di presentazioni. Ogni abito di scena disegnato da lei riesce a regalare un colore, un carattere ed un’espressività al personaggio che lo indossa che lo rende vero e credibile, un autentico affresco di un’epoca che vive sulla pelle degli attori. Gli abiti della De Vincentiis seguono il filone della scenografia di Nicola Rubertelli, rievocando un’ambientazione art nouveau a cavallo tra gli ultimi anni dell’ottocento ed i primi del novecento. Contestualizzazione adeguata, considerato lo status sociale nel quale si trova Don Pasquale, dove ogni orpello e ogni elemento artistico diviene ostentazione della ricchezza dell’anziano signore, e dove si identifica un rapporto di commistione tra il carattere di Don Pasquale e il nuovo gusto borghese, appunto: un’arte in linea con il progresso dei tempi e delle aspettative dell’uomo, ma al tempo stesso capace di recuperare quei valori ideali e fantastici che l’eclettismo indiscriminato di fine secolo aveva imposto.
Ed il personaggio di Don Pasquale, basso comico interpretato ottimamente  da Paolo Bordogna, restituisce proprio la caratterizzazione di un vecchio  tradizionalista ed ostinato, ma anche sostanzialmente buono, accondiscendente e incapace di controllare la furbissima Norina,  soprano interpretato da Barbara Bargnesi. Sul palco anche il Baritono Mario Cassi (Dottor Malatesta), il tenore Antonio Siragusa (Ernesto) ed il basso Rosario Natale (il Notaro).
La trama è quella tipica dell’intreccio amoroso del primo ottocento, la finzione che sta al fondamento del melodramma italiano di inizio secolo, una storia di matrimoni d’interesse, di amori segreti e di legami di parentela mantenuti costanti solo per motivazioni economiche. Quello che  interessante notare è il discostamento di Donizetti fra la drammaturgia e la sua effettiva realizzazione, rimarcando ulteriormente quell’aspetto melodrammatico che conferirono alle sue opere giudizi contrastanti, talune volte con esiti notevolmente positivi grazie proprio alla matrice fortemente melodrammatica portata in scena, altre volte invece con critiche che tacciavano l’opera donizettiana come ripetitiva e piena di ovvietà. Ma Donizetti non si cura molto dell’intreccio drammaturgico nel Don Pasquale: egli, se è vero che intreccia il dramma con la musica, e più specificatamente con la vocalità, vuole anche rappresentare qualcosa di estraniante, una finzione dove l’invenzione drammatica veniva affidata ai cantanti e al loro bagaglio tecnico. Il compositore bergamasco infatti non aveva preoccupazioni per raggiungere un dignitoso livello orchestrale: l’eleganza del suo strumentale e la sua spontanea intuizione delle possibilità espressive insite nei timbri dell’interprete erano per Donizetti una dote innata, una composizione che esaltava il ruolo dei maggiori cantanti dell’epoca, rispettando le convenzioni del loro mestiere.
Un’opera buffa con un finale chiaro e surreale: “La morale in tutto questo è assai facil a trovar. Ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in tarda età, va a cercar col campanello noie e doglie in quantità…”, rievocando la parentela con le numerose altre farse e opere giocose del Settecento italiano ed europeo.


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