“SHITZ – Pane, amore e salame"

Filippo Renda rilegge il testo di Hanock Levin
Pièce sardonica e grottesca sugli appetiti degli umani all’Elicantropo di Napoli fino al 27 aprile
Servizio di Marco Catizone

Napoli - “L’inferno sono gli altri”. Un inferno sartriano scevro da riflessi vermigli, forse anche da vampe sanguigne di castighi danteschi, eppur dannato e osceno nel suo luciferino vezzo di “insinuarsi nell’esistente”, l’ estremità  forcuta a cingere la strozza di famigli  viepiù “captivi”, progenie lupesca del dio-padre Shitz, come pater l’istessa madre e poi la figlia, polsi uniti in cogente preghiera d’appagare egoismi luculliani, asfissiati dal peso di una società orwelliana di falsi miti borghesi distorti, che diviene Moloch ancestrale che tutto fagocita e tutto assimila, sullo sfondo d’una guerra agli umani, all’umano, perenne e sibilante come sirena a contraerea. Un Dio-cannibale dalle gengive disadorne, digrignanti, plasticamente contratte nell’assalto al panem, senza circenses, o ballon d’essay, ricchi premi e cotillones, arroccato come nudo pasto, a puntellarsi nel suo sacello d’ossuta egotimia, stravolto ululante alla luna, in un amplesso demoniaco di carne e ancora carne, un tanto al pezzo, un occhio alla libbra, un salame come daga, per abbattere mulini, rinchiusi nei propri steccati.

Famiglia-monstrum, fagocitata a brani da lutulenti fanoni sfavillanti, come fuochi fatui d’ un consumismo proteiforme, un dasein che si spersonalizza, si oggettivizza, nella sua alienante discesa agli inferi sabbiosi, nel meriggio di un yom kippur qualunque, sempre buono per l’espiazione, sempre prono all’istinto più bieco; un’odissea dentro sé stessi, nel ventre mai satollo dell’iper-umano lupesco, alla ricerca d’un segno, un solo segno che sleghi i desideri in-confessabili dai villi d’intestino: e il vello è biancolatte, da sposa, per figlia da incatenare liberandola, da portare come stigma, simbolum da mostrare, estendere al finito, in senso ferale, nel nome di una semplificazione esistenziale che diviene logo, che diviene marchio a fuoco da imprimere sulla carne, sempre e solo carne. Scrittura cerusica, singulto viscerale, barocca e rapace, Filippo Renda rilegge il testo di Hanock Levin, riscrive fame, guerra e destino alla luce siderale d’un nucleo famiglio gelido come lapide,  annulla l’essere, quantificandone il valore, uniformandone il desiderio agli stilemi del Leviatano, con pulsioni primarie che divengono ossessioni elicoidali, urticanti e loffie all’unisono.

Speculum di progenie centrifugata, il riflesso di Shitz si irradia nelle brume d’un genero affamato, amorale, cannibale, massa e mole schiacciata dal peso d’una gromma biliosa, un catrame che soffoca e ammorba, una fine annunciata e dispersa, tra sirene lontane come grani di clessidra a sfumare nel vento. Stralunata preghiera che si sgrana invereconda, un vampirismo edonistico dei bassi istinti, chiave a stella di un algoritmo viscerale eppure ferocemente ironico e grottesco, che trasmuta le maschere e le personae, le famiglie da amnios fetale a sacco scrotale, per spurgare il seme, come fosse segno storto, chiodo screziato nel ligneo ventre d’un cristo ormai condannato all’abbrutimento e all’evidenza, che nessun sacrificio vale shalom, al massimo un salame.

Famiglia come trappola per topi moderni,  bulimici ed ingordi, logorati dall’ansia del possesso; gli Shitz possiamo esser noi, e sudiam freddo ridendo a scatto, come ratti sciagurati che ballano sul cassero di una socialità in disarmo, il baratro infernale che s’apre ad un passo.

Applausi per tutti, e mazel tov a tutti noi.

 

 

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