“Tosca” - di Giacomo Puccini, regia di Jean Kalman, direttore Jordi Bernàcer



Al Teatro San Carlo di Napoli per l’ Opera Festival che si svolge dall’undici al ventiquattro luglio

Servizio di Francesco Gaudiosi

Napoli - Ritorna anche quest’anno nel Massimo napoletano il San Carlo Opera Festival, giunto alla sua seconda edizione e con due spettacoli su cinque (la Tosca in questione e la Bohème), allestiti dallo stesso Teatro San Carlo.
Un lavoro che vede quindi protagonista Puccini, eclettico genio musicale capace di coniare la lirica classica propria del diciannovesimo secolo alle sperimentazioni musicali del primo novecento. Elementi che vivono di luce propria in maniera particolare in Tosca, all’interno della quale si manifesta un’ardita concezione dell’impianto scenico, miscelando il gioco musicale a quello psicologico, con ambientazioni sceniche di ampio respiro e con effetti proprio del grand-operà : dal maestoso finale del primo atto per la processione del Te Deum, alla cantata festiva fuori scena in contemporanea con l’interrogatorio di Scarpia al Cavalier Cavaradossi, fino a concludersi con quel magnifico eppur così struggente gioco teatrale nella convinzione di Tosca e Cavaradossi che la fucilazione sarà finta, mentre invece non lo è.
Ma Tosca non è solo amore; anche i momenti amorosi, pur dando occasione a due tra le più ampie arie del Puccini (“Vissi d’arte”, “E lucevan le stelle”), acquistano, dall’ambientazione storico-politica e dalla levatura intellettuale della affascinante attrice Tosca e del impavido Cavaradossi, una consistenza di tragicità ben lontana da quei sentimentalismi della Bohème.
Ultimo fattore degno di essere menzionato all’interno dell’opera è proprio quella matrice verista che sembra seguire il fil rouge della precedente e diversissima opera composta poco prima, la Bohème appunto. La violenza sanguigna sulla scena, propria del dramma verista, raggiunge il culmine nel sadico tentativo di stupro dello Scarpia  e nell’uccisione di questo a coltellate da parte di Tosca che, nel finale del secondo atto, pone sul petto del capo della polizia un crocifisso ed esclama la celebre frase: “E avanti a lui tremava tutta Roma”.
Venendo alla messinscena il regista Kalaman decide di allestire, insieme a Raffaele di Florio, una struttura  complessa e semplice allo stesso tempo: ambientazioni di ampio respiro accostate però ad una scenografia generale asciutta e senza fronzoli. Interessante e degno di nota risulta il tentativo di trasporre la vicenda a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del novecento: i costumi di Giusi Giustino rievocano proprio quella Roma buia e silenziosa del periodo fascista e la scena del secondo atto, con quel Palazzo Farnese come perfetta espressione dello stile littorio, dove si trova il terribile capo della polizia Scarpia- affiancato al perverso e spietato fondatore della “Banda Koch”, Pietro Koch, appunto. Ambientazione che, però, non sempre trova giustificazione negli sviluppi della vicenda. Risulta infatti, in taluni momenti e in alcune arie dell’opera un chiaro e palese riferimento al periodo ottocentesco nel quale Puccini volle ambientare l’opera: e proprio la vicenda di Napoleone e della battaglia di Marengo - elemento storico centrale e fortemente contestualizzante nell’opera stessa - ne è esempio lampante che stride fortemente con l’ambientazione  scenica conferita allo spettacolo da Kalman.
Nonostante questo evidente anacronismo la struttura generale dello spettacolo è apprezzata, soprattutto grazie alle magistrali interpretazioni di Stefano la Colla (Mario Cavaradossi) e Sergey Murzaev (il Barone Scarpia), entrambi con quella forte intensità espressiva necessaria per entrare in due personaggi così complessi e centrali nell’opera del Puccini. Specialmente per Scarpia, Puccini utilizza un leitmotiv con una complessità di sviluppi sconosciuta a qualsiasi musicista italiano dell’epoca: l’orchestrazione è ricca di effetti di grande potenza, a cui corrisponde la vocalità aggressiva del Barone.
Meno convincente e più pallida invece la prestazione di Florenza Cedolinis, che nonostante un’indiscussa  padronanza vocale a livello musicale, conferisce al personaggio una caratterizzazione spesso geometrica e troppo prevedibile. In particolar modo in alcune azioni o espressioni che appaiono troppo caricate e finte, laddove sarebbe necessario togliere, rimuovere, e conferire alla Tosca una chiave interpretativa più semplice e genuina: seppure affascinante e celebre cantante, questa resta una donna tormentata da un tale desiderio d’amore che alla fine dell’opera la porterà al suicidio.
Per concludere, è necessario soffermarsi proprio sul finale in questione: un’opera come la Tosca presenta uno di quei finali così maestosi e celebri che “mettere le mani” sull’epilogo di questo capolavoro sembra quasi un’eresia. E invece così accade con un finale che, si può definire “aperto” all’interpretazione del pubblico. Anche se, per la verità, ci è parso essere eccessivamente “aperto”, in quanto nulla fa presumere ad uno spettatore non al corrente della storia che Tosca si butterà giù da Castel Sant’Angelo. Anzi, una Tosca che alza il braccio verso l’alto, illuminata da una fortissimo velatino bianco da fondo scena, sembra più somigliare ad una umana rappresentazione della Statua della Libertà che al dolore straziante che condurrà la cantante Floria Tosca a buttarsi nel Tevere.
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