Al Teatro San Ferdinando di
Napoli (anteprima Stagione Teatro Mercadante) il 20 e il 21 giugno
“Miss Julia” da August
Strindberg - Regia di Lorenzo Montanini
Al Teatro Galleria Toledo di
Napoli – per il Napoli Teatro Festival Italia – il 20 e 21 giugno
Servizio di Antonio
Tedesco
Napoli – Dalle gelide e
brumose terre scandinave La Signorina
Giulia, l’atto unico che August Strindeberg scrisse nel 1888, si
trasferisce nelle calde e focose atmosfere sudamericane. Per una singolare
coincidenza, ma forse neanche tanto casuale, due versioni di questo testo sono
andate in scena contemporaneamente sui palcoscenici napoletani. La prima, sotto
la direzione del regista cileno Cristian Plana, in scena al Teatro San
Ferdinando, costituisce una delle due anticipazioni (l’altra è Opera pezzentella di Mimmo Borrelli che
sarà in scena il 25 e 26 giugno) della programmazione della prossima stagione
del teatro Mercadante, la prima con la nuova qualifica di Teatro Nazionale.
La
seconda versione, con il titolo di Miss
Julia, per la regia di Lorenzo Montanini, è andato in scena, invece al
Teatro Galleria Toledo, nell’ambito delle manifestazioni del Napoli Teatro
Festival Italia.
In entrambi gli allestimenti
lo spirito “caliente”, tipico del temperamento latino, sembra voler irrompere a
scardinare la raggelata freddezza scandinava. Il testo di Strindberg riflette
sulle dinamiche sociali, sulla verticalità delle relazioni che queste
determinano. Pur lasciando intravedere
infiltrazioni e capovolgimenti le raggela, però, in una fissità di ruoli.
Sancisce l’impossibilità del dialogo e dello scambio, riduce tutto al gioco
primordiale della prova di forza, della sopraffazione reciproca. E se la classe
dominante, aristocratica, possidente, manifesta chiari segni di indebolimento e
decadenza (la Signorina Giulia che cede alla tentazione di mescolarsi alla
servitù), quella subalterna (qui rappresentata dal servo Jean) per quanto
aspiri, non solo a emanciparsi, ma forse anche a ribaltare i ruoli, non sembra
mossa da propositi migliori o più nobili, di quelli di una occasionale e
momentanea rivalsa.
I due allestimenti di cui
parliamo interpretano la lucida, quanto cupa visione di Strindberg, soprattutto
attraverso una serie di allusioni e segni scenici. Plana lancia sulla ribalta una scatenata
Giulia in short e scarponcini fuxia, che balla a ritmo di disco dance e si
concede al servo Jean con atteggiamenti audaci e disinibiti. Mentre intorno a
lei tutto resta fermo, immobile, nei costumi d’epoca che sembrano inchiodare
gli altri protagonisti (e le numerose comparse) alla loro immutabile realtà.
Giulia si presenta come una mosca impazzita che non riesce a fuggire dalla
scatola in cui, quasi letteralmente, è racchiusa la scena. O forse, meglio, una
falena che, come nella più classica delle metafore, vola intorno alla fiammella
da cui è irresistibilmente attratta (il servo Jean) fino a bruciarsi le ali.
L’intuizione del regista, su
cui è impostata la messa in scena, crea curiosità e aspettative nello
spettatore (che è sempre in attesa della nuova “visione”, la nuova
interpretazione che conferma l’universalità del classico), che però ben presto
vanno deluse, in quanto non solo si fermano al loro stato originario, privo di
significativi sviluppi, ma subiscono anche una progressiva caduta di ritmo, che
contribuisce a spegnere le iniziali promesse. In scena , Giovanna Di Rauso,
Massimiliano Gallo e Autilia Ranieri che offrono prove diseguali, ma dove la
prima profonde soprattutto un grande impegno fisico.
Diverso il discorso per
l’allestimento di Montanini, che riscalda il testo al fuoco colombiano, non
solo spostando considerevolmente l’ambientazione e l’atmosfera, ma
principalmente riportando tutto, significativamente, sul piano del linguaggio.
Il testo è recitato, infatti, in inglese e spagnolo, dove la prima è vista come
la lingua dell’egemonia e del potere, e la seconda della subordinazione, ma
anche della passionalità e dello spirito che all'altra manca. Così, mentre
Julia si esprime in inglese e Juan e la servitù in spagnolo, la prima subisce
la fascinazione dei secondi che vede come elemento di evasione e di libertà.
Salvo poi tirarsi indietro quando i giochi sembrano farsi superiori alle sue
capacità di gestirli. Il suicidio finale, quindi, a cui Juan stesso la induce,
quasi fosse il sacrificio simbolico di una classe dominante ormai logora e
decadente, assume il sapore di una trasgressione (Juan morde una mela invece di
uccidere il canarino di Julia, come da testo) quasi occasionale, un gesto che
non ha la forza rivoluzionaria del vero cambiamento, del ribaltamento di forze,
perché chi sopraggiunge, forse, non è mosso da reale volontà di rinnovamento,
ma, appunto, da semplice e sterile spirito di rivalsa. Ecco, allora, che seppur
riscaldata al calore latino, la raggelante fissità e immutabilità di Strindberg
riemerge con la sua poco conciliante visione della natura umana.
Sicuramente più mosso, più
brioso, con una migliore tenuta dei ritmi e un più chiaro disegno registico complessivo,
questo Miss Julia è sostenuto anche da tre validissimi interpreti del teatro
colombiano, Jhon Alex Toro e Tina Mitchell, nei panni, rispettivamente, di Juan
e Julia, e la briosa Gina Jaimes Abril in quelli della cuoca Cristina.
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