“La riunificazione delle due Coree” di Joel Pommerat, regia di Alfonso Postiglione
In scena dal 13 al 16 giugno
alla Sala dei Cannoni di Castel Sant'Elmo per il Napoli
Teatro Festival Italia
Servizio
di
Francesco Gaudiosi
Napoli - Da un titolo del
genere ci si può aspettare che si parli di tutto fuorché di amore. E invece è proprio questo il nucleo
centrale del testo, 18 quadri per 51 personaggi per 9 attori che hanno come
filo conduttore proprio l’amore. L’amore sessuale, filiale, vissuto, sognato,
desiderato. Ed il titolo sta proprio a significare quel riallacciamento, quella
ri-unione di due anime gemelle sorprendentemente destinate ad incontrarsi e a
parlare d’amore.
La riunificazione delle due
Coree torna al Napoli Teatro Festival, dopo aver debuttato due anni fa proprio
sotto la regia dell’autore e regista Joel Pommerat, stavolta in versione
italiana con la traduzione di Caterina Gozzi e la regia di Alfonso Postiglione.
Nei 18 quadri messi
sapientemente sulla scena da nove bravissimi interpreti, ne viene fuori un
caleidoscopio di sentimenti, emozioni, ricordi e testimonianze legate alla
tematica amorosa, senza però mai sfociare in melensi o ripetitivi dialoghi,
bensì portando in scena una varietà di personaggi e di vissuti tutti piacevoli
da osservare. Postiglione si avvale di ottimi interpreti che non hanno bisogno
di inutili fronzoli scenografici, tutto è ridotto al minimo per valorizzare le
caratterizzazioni attoriali, connotando ciascun quadro in una realtà quasi
trascendente, priva di una precisa contestualizzazione, ma passibile di essere
immaginata lì dove l’osservatore se la voglia proiettare. Una dimensione
collettiva e personale al tempo stesso, la prima riguardando l’osservazione
degli attori, la seconda traslando questa su di un piano onirico-astratto
presente nell’immaginario dello
spettatore.
Una messa in scena
complessivamente asciutta ed efficace, nella quale si vuole valorizzare la
valenza drammaturgica del testo del Pommerat, frutto esso stesso di un
linguaggio contemporaneo, reale e concreto. Tutto è vissuto su un piano
corporeo ma parimenti astratto, trasportabile in una realtà vicinissima: sembra
quasi di ascoltare ed osservare di nuovo quelli che erano gli spettacoli
dell’ormai lontano neorealismo.
Gli interpreti poi (Sara
Alzetta, Giandomenico Cupaiuolo, Biagio Forestieri, Laura Graziosi, Gaia
Insenga, Armando Iovino, Alglaia Mora, Paolo Musio e Giulia Weber), regalano
momenti di ilarità, altri di profonda riflessione, fino ad arrivare ad un
coinvolgimento emotivo che necessiterebbe di far chiudere lo spettacolo dopo
un’ora e un quarto di rappresentazione. Tutto ciò che viene dopo, nonostante la
presenza di altri quadri ulteriormente piacevoli, ci dice troppo di questa
messa in scena. A parer di chi scrive il testo drammaturgico paga proprio il
prezzo di una sua continua frammentazione che costringe lo spettatore ad una
costante attenzione per comprendere ogni cambio di scena e la nuova
contestualizzazione della piece in atto. Se si è riusciti ad emozionare dopo
un’ora e poco più di spettacolo, è inutile inseguire quella inefficace regola
marginalista del “più faccio più riesco ad emozionare” che a teatro non
funziona. Così si pecca solo di ubris, di tracotanza, e le tragedie greche ci
hanno dimostrato che fine fanno personaggi come Prometeo o Agamennone.
Nel complesso, lo spettacolo
risulta apprezzato e da consigliare, ma forse non nella fredda e cupa cornice
della sala dei cannoni del Castel Sant’Elmo, che di certo non favorisce una
concentrazione su di uno spettacolo della durata di due
ore. Un inno all’amore, che forse sarebbe stato ancora più piacevole se visto
in una rappresentazione all’aperto.
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