IL FILO DI MEZZOGIORNO – di Goliarda Sapienza, adattamento di Ippolita di Majo - Regia di Mario Martone

Al teatro Mercadante di Napoli dal 5 al 16 febbraio

Servizio di Antonio Tedesco

Napoli - Personalità complessa, contraddittoria, tormentata, Goliarda Sapienza in seguito a una crisi depressiva e ad un conseguente tentativo di suicidio subì, nei primi anni Sessanta del Novecento, un ricovero in ospedale psichiatrico dove fu sottoposta a una serie di elettroshock. Ne uscì grazie all’intervento del suo compagno di allora, il regista cinematografico Citto Maselli. Ma la sua psiche era devastata e la sua memoria a pezzi. Fu lo stesso Maselli a spingerla a tentare la terapia psicoanalitica affidandola a un terapeuta molto noto in quegli anni, Ignazio Majore. Dall’esperienza della terapia, che seguì per alcuni anni, Goliarda Sapienza ha tratto un libro fremente e bruciante intitolato Il filo di mezzogiorno. Una sorta di cronaca lucida e caotica a un tempo delle sedute che per mesi e mesi si seguivano quotidianamente fissate a mezzogiorno, appunto. Da questo testo, adattato per il teatro da Ippolita di Majo, Mario Martone ha realizzato uno spettacolo che, con lo stesso titolo del romanzo, ha debuttato al Teatro Mercadante di Napoli il 5 gennaio. La messa in scena si affida ad una sorta di “realismo simbolico”, nel senso che l’allestimento scenografico, realizzato da Carmine Guarino, rappresenta fedelmente il salotto di una casa borghese con tanto di divani, poltrone, abat-jour, librerie eccetera. Ma la scena è divisa in due metà speculari, perfettamente simmetriche, montate su due pedane mobili, come fossero una lo specchio dell’altra. Alludendo forse ai due emisferi cerebrali, in una sorta di rappresentazione concreta, visibile, della psiche ferita della scrittrice. Una rappresentazione scenografica che, oltre ad avere un forte valore simbolico, si potrebbe definire “recitante”. I movimenti delle due pedane, infatti, si sintonizzano sui mutevoli umori della protagonista, seguono e, per molti versi, rappresentano, i suoi stati d’animo, le sue emozioni. Variando dall’oscurità dei buchi di memoria, alla confusione dei collegamenti temporali, alle paure e agli entusiasmi che la terapia stimola nella paziente. Separando, di frequente, anche i due personaggi in scena, Goliarda (un’ottima Donatella Finocchiaro) e l’analista. Quest’ultimo, interpretato da Roberto De Francesco, si presenta come una figura un po’ imbolsita, necessariamente sottotono rispetto alla sofferta, ma anche per certi versi aggressiva, vulnerabilità di Goliarda, al suo disorientamento, a quella sorta di stato confusionale creativo che alterna momenti di esuberanza a stati depressivi. 

L’analista rappresenta lo specchio incerto, un po’ opaco, in cui Goliarda riflette il suo disagio. Ma anche lui riesce in qualche momento, come quando ad esempio intona il Canto dei pescatori delle Isole Eolie, a spogliarsi della sua veste professionale e a manifestare la sua umanità. Fino, però, a farsi risucchiare in un coinvolgimento emotivo che decreterà la brusca fine della terapia. La regia di Martone sembra concentrarsi soprattutto sulla necessità di coordinare le pulsioni, diversamente manifestate, ma ugualmente coinvolgenti, dei due protagonisti, con i movimenti scenici delle pedane che, in qualche modo li sottolineano e li evidenziano. Operazione che, pur non essendo priva di una certa efficacia, rischia di far pesare troppo l’elemento simbolico sul teso scambio dialettico che si instaura tra i due protagonisti. In definitiva, non possiamo non chiederci se fosse davvero necessaria una scenografia così macchinosa in una vicenda tanto intimista, giocata tutta sull’interiorità dei personaggi. Non a caso le emozioni più forti vengono dall’intensità recitativa di Donatella Finocchiaro, dal suo totale, anche fisico, identificarsi con la personalità di Goliarda Sapienza (ci riferiamo soprattutto ai due momenti di inizio e fine con i monologhi dell’attrice a sipario chiuso). È lei, in definitiva, il cuore dello spettacolo, Donatella-Goliarda. E, in questo senso, un apparato scenografico troppo complesso rischia addirittura di depotenziare il prezioso contributo dell’attrice. Il teatro, per sua natura, dovrebbe evocare più che mostrare. Cercare di “cinematografizzarlo” potrebbe snaturarne il senso. Il movimento delle pedane, accompagnato da un apposito gioco di luci (realizzate da Cesare Accetta), arriva a mimare, in qualche caso, la dissolvenza incrociata, tipico strumento del linguaggio cinematografico. Forse involontaria deformazione dovuta alla alternata frequentazione di teatro e cinema che Martone sta avendo negli ultimi anni. L’essenzialità e il discorso diretto in teatro sono una forza che può fare a meno di complessi artifici. Specie quando si hanno a disposizione argomenti così forti, così coinvolgenti emotivamente, e una attrice in stato di grazia, come ci è parsa Donatella Finocchiaro, in grado di cogliere con stupefacente leggerezza tutte le infinite, mutevoli, sottili, inafferrabili sfumature che un personaggio così forte e controverso le offre. Come per contro De Francesco si fa carico di tutto il disorientamento, il dubbio soffocato e inespresso che un uomo di scienza (teorica) si trova ad affrontare quando si scontra con l’imprevedibilità del fattore umano.

 

Foto di Mario Spada

 

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