“ARREVUOTO” 2017 - direzione artistica Maurizio Braucci - da un’idea di Roberta Carlotto coordinamento pedagogico chi rom e…chi no

Al Teatro San Ferdinando di Napoli il 6 e 7 maggio 2017

 

Servizio di Maddalena Porcelli

 

Napoli – “Arrevuoto” non si può definire, è un qualcosa che travalica ogni possibile concettualizzazione; è, come l’onda che monta sulla cresta indocile della marea, sostanza vitale allo stato puro. Più di 150 adolescenti, provenienti dalle periferie e dal centro, delle più differenti estrazioni sociali, costruiscono uno spettacolo che scuote e travolge la scena, per restituirci la visione di una realtà altra, potente e pervasiva, nella quale si prefigura la possibilità tangibile di un recupero di valori che né il tempo né lo spazio potranno mai scalfire. Non è sogno, non è utopia, è più semplicemente pratica di trasformazione della realtà. Siamo alla dodicesima edizione di un progetto nato nel 2005 da un’idea di Roberta Carlotto e prodotto dal Teatro Stabile di Napoli Mercadante, allora diretto da Ninni Cutaia, con il contributo del Teatro delle Albe e di operatori sociali sul territorio. Il progetto si è consolidato e si è costituita l’Associazione Teatrale e Pedagogica Arrevuoto, che da allora lo porta avanti, mettendo in campo anche in questa nuova edizione una regia collettiva: Pino Carbone, Alessandra Cutolo, Anna Gesualdi, Christian Giroso, Nicola Laieta, Sergio Longobardi, Ambra Marcozzi, Vincenza Modica, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella; la direzione artistica è affidata a Maurizio Braucci. Inoltre, sono tante le realtà coinvolte che hanno contribuito al successo della rappresentazione: dalle guide teatrali e pedagogiche ai musicisti, ai costumisti, agli scenografi, alle scuole, alle associazioni, ai centri sociali.  Sopra tutto, però, brilleranno i protagonisti, con la loro disponibilità a mettersi in gioco. Ognuno di essi meriterebbe una presentazione a sé, in quanto esecutore singolare – sebbene unito agli altri da un intento comune – e connotato da proprie peculiarità. Sarà dunque esclusivamente per questioni di spazio che li descriveremo come i 150 che ci hanno magicamente incantati. Quest’anno ci hanno proposto uno dei capolavori del teatro del ‘900, Il Suicida del russo Nikolaj Erdman, un testo che messo in scena nel 1928 da Mejerchol’d costò la prigionia e l’esilio al suo autore. Il dramma, che assume la forma della farsa, racconta l’equivoco creato da un giovane disoccupato moscovita, il protagonista Semjon, creduto sul punto di suicidarsi, che afflitto dal senso di svilimento del sé, di disistima e di mancata coscienza di un’identità, finirà per attirarsi addosso l’attenzione generale di quanti scorgeranno in lui la possibilità di speculare su quella disgrazia, per smania di protagonismo o, più cinicamente, per volontà di acquisizione di un prestigio personale. Trasposto nella realtà napoletana la tragicommedia diventerà occasione- dal momento che il povero Semjon è vittima di un sistema totalitario che non può tollerare l’esistenza di una voce, per quanto flebile, fuori dal coro di consenso- per riflettere sulle politiche economiche e sociali che speculano sul meridione, quelle stesse politiche che nel loro procedere storico mutano le forme ma non il contenuto. Un meridione oppresso e smembrato fin dalle sue origini, terreno d’invasione delle varie monarchie susseguitesi nel tempo e terreno di speculazione da parte del governo dell’Unità della nazione. La necessità di indagine storica, delle cause più che degli effetti, risulta essere uno degli obiettivi di Arrevuoto. La storia del sud è segnata dallo stato d’emergenza, dai tempi di Giolitti, che Gaetano Salvemini definì “il ministro della malavita”, per aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno procurandosi il voto dei deputati meridionali con l’aiuto della malavita. Fin da allora le leggi speciali che ne scaturirono e che affamarono ancor più la massa dei proletari, fu oggetto di grande approfondimento da parte degli studiosi meridionalisti.  Anche allora si speculò nei modi più diversi: funzionari piemontesi che si comportarono come fossero in colonia, garibaldini che si pentirono di aver portato “i selvaggi” in Italia, socialisti che lamentavano la palla al piede e fischiavano Salvemini nei loro congressi, antropologi positivisti che misuravano crani cercando il quid che rendeva “barbari” i meridionali. Una cultura diffusa da cui trarre il pretesto affinché lo Stato potesse instaurare un regime d’eccezione e occupare il sud militarmente; cosicché  i briganti, ossia la massa dei diseredati del sud, divenisse oggetto di una repressione tra le più violente e spietate della storia.
Oggi siamo sicuramente più capaci d’interpretare ciò che fu sempre chiaro agli speculatori di Stato: quanto una legislazione speciale, avente lo scopo di svolgere un’azione di riequilibrio delle diseguaglianze, possa fertilizzare il terreno di contrattazione tra il governo e le classi politiche locali che sventolano la bandiera degli interessi meridionali per trarne vantaggi personali. Oggi vediamo radicarsi sui territori sacche di resistenza che non sono più disposte alla muta e passiva rassegnazione, che attraverso le lotte delle comunità  rivendicano la scelta di decidere sui propri territori, per recuperare quei valori di solidarietà che gli sono stati sottratti da un’economia di mercato da sempre indifferente alla vocazione naturalistica del meridione e che fin dagli inizi del secolo scorso ha imposto al territorio, in nome dello sviluppo capitalista, impianti industriali nocivi: l’Ilva, poi divenuta Italsider, l’altoforno Cementir e un’enorme colata di cemento sulla spiaggia di Bagnoli, uno dei litorali più suggestivi d’Italia. Oggi abbiamo consapevolezza del fatto che le etichettature tentate dagli organi di stampa e dai politici paventino, con tutto il loro mostruoso carico di retorica, un’arretratezza culturale, un sottosviluppo del sud e un presunto carattere criminogeno delle lotte di resistenza per imporre alle comunità territoriali discariche, inceneritori, basi militari, finte bonifiche e coprire truffe, crimini, disastri, compresi i dati che li provano. Sappiamo bene quanto il terremoto dell’Ottanta, attivando il meccanismo dell’emergenza, abbia speculato, con la costruzione di interi quartieri come Pianura, Ponticelli e Scampia, colando cemento che ha distrutto culture, tradizioni e relazioni umane, oltre che un ricco immaginario simbolico condiviso e quanto tutto ciò abbia frantumato intere comunità e trasformato intere aree verdi in non luoghi-dormitori  deprivandole di un’identità. Questa consapevolezza, piuttosto che la fatale acquiescenza, induce alla scelta. Arrevuoto è sintomo di questa scelta, in quanto creatore di processi d’inclusione attiva, non gerarchica. Dal palco qualcuno grida al pubblico, citando Shakespeare ”C’è del marcio in Danimarca”, cifra universale che urla al potere corrotto. Ma la scelta implica ricerca da cui far nascere l’urgenza di trovare forme per ridare allo spazio quell’ autenticità sottratta al tempo della vita, uno spazio vissuto come luogo dell’essere e del poter essere. Arrevuoto è tutto questo: l’adozione di comportamenti e atteggiamenti di collaborazione, solidarietà, mutuo appoggio, rispetto, tolleranza per le diversità, riconoscimento delle diverse modalità d’interazione; la capacità di creare spazi di relazione e di socializzazione che restituisca tempo al tempo rubato, spazio ai luoghi perduti; la restituzione ai bambini, agli adolescenti, delle  condizioni per sviluppare la propria fantasia, non intesa come fuga dalla realtà ma come riconoscimento dell’incontro con sé e gli altri, come atto di fiducia nell’umanità degli uomini. Inventare altri mondi, quel “far finta”, diventa possibilità concreta di scontrarsi con i propri conflitti e esorcizzare le proprie paure. Così il nostro Semjon bolscevico-napoletano, da una condizione di paura paralizzante, riscoprirà un po’ alla volta, sospinto dalle numerose presenze che pur contrastandolo gli dimostrano interesse, il valore della vita nella sua essenzialità. Un’esperienza catartica, in cui la forza simbolica del rito tende a ristabilire un equilibrio e un’armonia, ricomponendo le lacerazioni generate dal conflitto; una magia che è tutta dentro quella possibilità di farsi spazio e vivere lo spazio in comunione con il pubblico. Arrevuoto cresce ogni anno nella consapevolezza di un’esperienza che sviluppa comunità e noi sentiamo provenire dal palco quasi un sussurro, che trapela dal fondo, benché coperto dalle grida di gioia, dalla musica e dai balli dirompenti di quei 150 ragazzi: un sussurro beffardo nei confronti di chi sperava in un destino diverso, per poter ancora e sempre specularci su. Seduti l’altra sera in teatro abbiamo visto un accordo esaltato della comunità trasformarsi in bellezza.
                                                                                                                                                                                               

 
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