“Nasza Klasa” (La Nostra Classe) – Una Storia in XIV Lezioni di Tadeusz Slobodzianek – Progetto di Massimiliano Rossi con la collaborazione di David Power Regia di Massimiliano Rossi

Al Cineteatro La Perla di Napoli il 27 e 28 gennaio

 

Servizio di Antonio Tedesco

 


Napoli -  Nel 1975, con la messa in scena di La classe morta, Tadeusz Kantor crea un archetipo che va oltre la “semplice” rappresentazione teatrale. Produce, in realtà, qualcosa di più ampio, uno spazio aperto (un contenitore dell'anima?), in grado di accogliere nella sua apparente semplicità (o meglio, elementarità) le innumerevoli e contraddittorie articolazioni della “condizione umana”. Riconducendole tutte, però, alla loro natura originaria essenzialmente effimera e illusoria, imbevuta di una tragica nostalgia per ciò che potevamo essere, che sapevamo d'essere, prima di dimenticarcene (“Lo sapevo, vi assicuro, lo sapevo. Ho dimenticato.” dice Kantor in un suo testo.) La classe morta non segue una vicenda, è pura visione, meccanismo astratto (se questo termine può usarsi anche per il teatro), scavo nell'interiorità e nella coscienza (ma ottenuto con strumenti lievi, come la parodia e il grottesco), che, nella sua universalità, ha un che di assoluto. E' l'esistenza stessa, che si riduce ad un giro di valzer della memoria, e lascia dietro di sé solo ombre, incerte e tremolanti, a nutrire un presente (che sfugge continuamente) altrettanto incerto e precario.

Parte da qui Nasza Klasa (La nostra classe), il testo di Tadeusz Slobodzianek, che, nella traduzione di Alessandro Amenta e la regia di Massimiliano Rossi è andato in scena al Cineteatro La Perla lo scorso 27 e 28 gennaio, nell'ambito della manifestazioni per la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell'Olocausto.

Ed è quasi la dimostrazione di un teorema. E' come se lo schema tracciato da Kantor si fosse riempito di carne e sangue, di vicende individuali e collettive tragiche e dolorose, che  non fanno altro che dimostrare l'ineluttabile verità di quel percorso tracciato dal grande maestro polacco. La nostra classe ha il respiro di un grande romanzo corale. Segue i suoi protagonisti (dieci) lungo un arco di tempo molto ampio. Ne registra le evoluzioni (o involuzioni), i modi con cui ognuno di essi interagisce con gli eventi storici devastanti in cui si trova a vivere. Siamo a Jedwabne, un piccolo villaggio in Polonia, il Secondo Conflitto Mondiale è alle porte. Il Paese subisce prima l'invasione sovietica, poi quella nazista. I dieci protagonisti, giovanissimi, sono compagni di classe, dapprima molto affiatati. La metà di essi sono ebrei. Con l'evolversi degli avvenimenti e l'alternarsi degli invasori, i loro rapporti si alterano e si corrompono. L'antisemitismo riemerge come tratto dominante, come un mostro addormentato che si risveglia. Un virus, una febbre che si propaga rapidamente annientando ogni relazione, ogni residuo anelito di umanità. A Jedwabne, nell'estate del 1941 la metà della popolazione del villaggio, circa 1600 persone di ogni età e condizione, ma tutti di origine ebraica, fu trucidata per mano dei loro stessi compaesani non ebrei. L'eccidio fu a lungo attribuito ai nazisti fin quando la recente scoperta di nuovi documenti non ha ristabilito la verità.  Il testo di Slobodzianek, lavorando, appunto, sullo “schema” kantoriano, riesce a restituire in maniera stilizzata, ma non per questo meno tragica e profonda, la portata universale di quella tragedia. Il sostanziale fallimento di un'umanità che ha “dimenticato”, appunto, la sua vera natura.

L'allestimento di Massimiliano Rossi, in accordo con la struttura del testo, racconta di questo evento, tragicamente vero, affidandosi a un registro di antinaturalistica leggerezza, con una scenografia che richiama per l'appunto (come era anche per il lavoro di Kantor), la classe di una scuola, servendosi, poi, di quegli stessi banchi (l'origine, la memoria perduta) per ogni mutamento scenico. Così come restano in scena e partecipano all'azione anche i personaggi che vengono man mano, nell'incalzare degli eventi, fisicamente eliminati (ombre tremolanti del passato). Tra Brecht (per certi “straniamenti” anche un po' didascalici nella recitazione) e Kantor, quindi, un dramma possente, quasi indicibile, che si avvale, come detto, di una messa in scena fluida, priva di pregiudizi e di facili compiacimenti, ben servita dai dieci attori sempre in scena. Un allestimento importante sia dal punto di vista storico e civile che da quello più specificamente teatrale, che meriterebbe sicuramente una diffusione più sistematica e capillare.

 

 

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