OGGI È DOMENICA E SI PUÒ SOGNARE
Premiato da Teatro Pubblico Campano e in finale al premio Leo de Berardinis il testo di Sharon Amato
di Rita Felerico
Il
nascere di una trama drammaturgica da una inaspettata, inconsapevole esigenza
di scrittura: “Dai sentimenti, dalle
sensazioni e dalla possibilità di dare una forma poetica alle parole: così è
balenata l’intuizione di una struttura drammaturgica a sostegno della poesia,
come forma, esigenza necessaria ad esprimere ciò che le parole volevano
significare”. È Sharon Amato a
confidarci l’incipit del taglio poetico di Minoranze. L’Impasto della domenica:
“La scrittura teatrale si apre infatti
con il primo verso di un canto di nenia e la prima parola deriva dal sinti, il
linguaggio dei nomadi. – continua -. Non
ho mai conosciuto la mia madre naturale, una sinti. I richiami biografici sono
evidenti, ma la storia che narro non è legata a doppio filo alla mia vita”.
Il testo ha attirato l’attenzione in ben due importanti contesti; è stato
premiato nell’ambito di Nuove Sensibilità
2.0. Fondo di garanzia per le idee, un bando promosso dal Teatro Pubblico
Campano, ed è giunto in finale, fra i 14 selezionati, della prima edizione del
Premio Leo de Berardinis Under 35 lanciato
dal Teatro Stabile di Napoli. Interessante la motivazione con cui Nuove
Sensibilità premia Minoranze, nella
quale si legge: possiede “una struttura
semplicissima ma rigorosa nella quale si dipana la trama e la storia dei tre personaggi chiave - una
madre, una figlia ed un soldato - ..la
scelta di far parlare i personaggi in versi, pare dilatare ed accentuare la
ricerca di una giustizia interna ai temi di una femminilità mortificata, che
sono parte del principio compositivo dell’opera”. Già nel titolo si apre
tutta la dimensione dello sguardo femminile: la forza che possiede la parola,
l’attenzione ad una cultura delle minoranze, dello scarto, del diverso e delle
piccole ma vitali azioni del quotidiano, della cura (vedi il richiamo alla
panificazione, al cibo), lo slancio di portare alla luce il desiderio di un
nuovo approccio alla vita, la rilettura delle relazioni sociali e personali,
del perché si tramandino oltre ogni contemporaneità. Chiediamo a Sharon: da
cosa parte questa avventura personale, letteraria e teatrale? “Sono partita da una ricerca personale; di
mia iniziativa volevo indagare sul concetto di identità e mi sono imbattuta
nella conoscenza di fatti storici tramutati in norme, in codici di
comportamento, nelle tradizioni popolari Arbereshe, un popolo di origini
albanesi che ha visto censurate tutte le tradizioni, che si tramandavano dentro
e fuori i confini del Paese, durante il regime di Hoxha. Tutto questo ha mutato
il mio concetto di identità, anche quello sulla identità femminile, senza
fronde didascaliche, però”. Sharon fa riferimento alla legge del Kanun e
alla storia delle vergini giurate, donne che dovevano sposare la propria
verginità assumendo le sembianze dell’uomo, per conquistare quei pieni diritti
sociali non consentiti alle donne. La trama scorre fra sogno e realtà, fra il
desiderio di incarnare una utopia e
le spigolature della vita, dalle quali proteggersi, fra l’intreccio molto bel
armonizzato di questi due livelli e l’attenzione a non farsi trascinare da
false convinzioni. Il desiderio di libertà scorre in tutto il testo. Nelle note di regia Sharon scrive: “Raccontiamo una storia che ha degli svincoli
nelle intermittenze della realtà, tutto quello che sta accadendo sulla scena è
la manipolazione della memoria della ragazza e della proiezione di una madre
sempre desiderosa di donare una vita migliore alla sua figlia”.
Si
racconta un modo per definire il perché e di come resistono nella memoria
collettiva e personale dei canoni tramandati, seppure oralmente, quanto siano
determinanti per i ruoli, le parole e la costruzione dei comportamenti nella
vita. “Certo – continua Sharon – e penso che dai frutti di una esperienza
così importante non potrò prescindere facilmente neppure in futuro, sarà il
focus dal quale ripartire per altri viaggi di conoscenza”. A guardare bene,
si legge ancora sul viso di questa giovane scrittrice un po’ di meraviglioso
stupore, per gli inaspettati riconoscimenti; il pensiero va alla messa in scena
del suo spettacolo – come previsto dal bando di Teatro Pubblico Campano – ed
alla prova performativa che a giorni -il 16 febbraio – dovrà sostenere con i
suoi attori presso il Teatro Stabile, quando i finalisti del premio dovranno esporre
frammenti o parti del loro progetto. Ne verranno selezionati solo 3, due dei
quali saranno inseriti nel cartellone del Teatro Stabile, mentre l’altro sarà
programmato al Museo Madre. Sharon conferma, insieme alla scrittura degli altri
autori premiati, quanto la sensibilità dei ‘giovani del teatro’ sia molto
‘dentro’ alle fragilità della nostra società, del nostro mondo in crisi su tante
certezze che si credevano acquisite e quanto sia il loro sguardo più intenso e
incisivo, meno avvolto da pregiudizi o preconcetti. In particolare, non si può
non amare Sharon; scegliendo il ritmo e la cifra del linguaggio poetico, ne pone
sul tappeto la valenza come veicolo e strumento di comunicazione, riprendendo un
discorso - mai interrotto ma a tratti oscurato – che riporta lo spettatore al
suono degli archetipi e delle origini, senza trascurarne il peso etico e
sociale. La scrittura esprime una “condizione esistenziale” che induce a non
fuggire ma a confrontarci, che non può essere affrontata da un linguaggio
logico / filosofico, dove la parola è sempre mediazione, dove la parola denota,
significa. Qui il linguaggio fa tremare, è un canto che non può essere
rimandato, non può tacere dell’immediatezza dei sogni e dei fatti.
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