“RACCOGLIERE E BRUCIARE” - liberamente ispirato alla “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters - Testo e regia di Enzo Moscato
Al
Teatro Galleria Toledo di Napoli il 9, 10 e 11 giugno per il Napoli Teatro
Festival Italia
Servizio
di Antonio Tedesco
Napoli - Assistendo alla messa
in scena di Raccogliere e bruciare, il testo di Enzo Moscato che per la
stessa regia dell’autore è stato rappresentato il 9, 10 e 11 giugno scorsi al
Teatro Galleria Toledo nell’ambito delle manifestazioni per il Napoli Teatro
Festival, si comprende il perché lo stesso Moscato vi abbia tanto a lungo
lavorato (circa due decenni, come specifica nelle note di regia) e perché
rivestisse per lui una tale importanza. E’ evidente che lo
schema-struttura di Antologia di Spoon River, il famoso testo che Edgar
Lee Masters pubblicò nel 1916 e al quale Moscato si è ispirato, offre
all’autore napoletano uno spunto prezioso in grado di racchiudere, in un certo
senso, tutto quello che è stato il suo lavoro di scrittore-drammaturgo fin
dagli inizi della sua carriera.
Raccogliere e bruciare è,
infatti, per molti versi la summa e la sintesi della sua opera. Dove Napoli, che di quest’opera è sempre stata, nel bene e nel
male, il centro, scopre finalmente il suo volto vero. Quello di una città-fantasma,
o forse sarebbe meglio dire, del fantasma di una città (dove per città non
intendiamo in questo caso un luogo fisico, ma un luogo dell’anima). Che genera
ectoplasmi, fantasmi della memoria che riemergono da un limbo, un luogo
intermedio tra la vita e la morte, dove sono sempre stati, dove forse la città
stessa (in quanto luogo dell’anima, appunto) è sempre stata.
I personaggi che
simbolicamente la rappresentano, emblemi di un'esperienza umana minima e universale al tempo stesso, come lo
erano quelli evocati nell'opera dello scrittore americano, sembrano emergere da
una tiepida e tenue penombra. Vengono alla ribalta. Giusto il tempo di
raccontare la loro storia, spesso triste, drammatica, in qualche caso grottesca.
Come segno di un passaggio, una traccia evanescente lasciata nel flusso
ininterrotto dell'esistenza. Poi
ritornano nella loro posizione di immobile sospensione. In quella sorta di
paralisi interiore che dalla vita si è trasferita alla morte. Che tra le due
condizioni, la vita e la morte, pare non sapersi mai decidere. Bloccati in
quella sorta di epitaffi in rima che potrebbero, potenzialmente, ripetersi
all'infinito. Metafore della vita, ma anche del teatro che da essa prende
spunto. Portatori “insani” della natura onirica della “realtà” ( il sogno che
il personaggio della donna cieca vuole insistentemente raccontare - quasi un tormentone – a un fantomatico don
Armando).
Difficile in poche righe
concentrare una disamina anche parziale, di tutte le connessioni, le
corrispondenze, i rimandi, che Moscato mette in essere tra l'opera da cui trae
ispirazione e questa sua originale lettura interamente calata nella realtà
napoletana. Basti dire che tutto torna perfettamente. Niente è forzato o fuori
posto, e che la vera poesia, qui più che mai, trascende le barriere di spazio e
tempo, di lingua e cultura e l'autore napoletano di oggi, e quello americano di
inizio Novecento si incontrano in un perfetto connubio. Giocato principalmente sulla
lingua, e sulle forme del linguaggio. Con le quali Moscato, come sempre, crea
assonanze, richiami, corrispondenze, lavorando sul ritmo e sulla musicalità
della parola, scritta e detta, dando fluidità alla forma corale della
rappresentazione, generando, nel miscuglio di idiomi e di suoni una lingua
dell'anima o, appunto, della poesia. Coadiuvato in questo suo disegno
scenico-poetico da un impeccabile, qualificato e folto gruppo di attori (20 in
scena) che, al di là del “normale” interpretare, si fanno essi stessi strumento
poetico, portatori di uno sguardo che riscatta le miserie umane assumendo una
compassionevole distanza dalle contingenze che le hanno generate. E la
nostalgia che traspare in tutto questo non è per un modo perduto, ma per quello
solo immaginato e che, forse, non è mai stato.
La musica, anzi diremmo una vera
e propria colonna sonora che dialoga con le voci degli attori, si snoda in un
collage di brani che vanno dal classico al pop, alla canzone dialettale colta,
quest'ultima eseguita dal vivo da Enza Di Blasio.
E che trova nel finale un
momento di grande suggestione, quando tutti gli attori (Benedetto Casillo,
Cristina Donadio, Rita Montes, Imma Villa, Massimo Andrei, Vincenza Modica,
Gino Grossi, Gino Curcione, Caterina Di Matteo, lo stesso Moscato e tutti gli
altri si uniscono in proscenio a cantare la famosa Vivere, che, in uno
spettacolo agito da fantasmi (della città e della scena, ma la coincidenza tra
le due cose è implicita) ci pare chiuda perfettamente il cerchio.
Teatro gremito alla replica
dell'11 giugno cui abbiamo assistito, e pubblico rapito che ha tributato, alla
fine, lunghi e commossi applausi.
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