“THE RED LION” di Patrick Marber, regia di Marcello Cotugno.

Al Teatro Bellini dal 16 al 21 novembre.

Servizio di Marco Catizone

Napoli – “El calcio, cabròn!”. Il calcio, già. Una parola descamisada, nuda e dura come un campo di schizzi, fango e merda; o cemento amato, sterrati di polvere, cicche e sputi impastati e acido lattico: la palla, el balòn, ‘o pallone; per qualcuno è “dubbio costante e decisione rapida”, per altri tronfio caduceo per processioni a turibolo di “ventidue imbecilli a sconocchiar dietro ad una palla”. La verità, sovente, nel mezzo trionfa: calcio come oppio popolare, come sibilla zolfegna e sulfurea, a ripetere mantra svilito eppure secolare, a servir copione per anime prave, composite nell'esser tifosi e malati per un mondo, per un pallone a tirar calci, che da gioco è divenuto specchio sociale, focolare famiglio per milioni di persone, letteratura e linguaggio, medialità e sponsorizzazione, cinema e finanche teatro.

Sfera ad empireo, che diviene conto in palco, che attraversa lettere e testi, corpi e personae; e quanti ne scrissero, Soriano, Galeano, Brera, Berselli; e quanti ne filmarono, Sorrentino su tutti, remember “L'uomo in più”?  Esordio ruggente, guizzo autoriale che si ripete oggi con l'apoteosi maradoniana, il taumaturgico tocco de “E' stata la mano di Dio”, di D10S, quel Re assoluto e iconoclasta, spirito dell'argentina profonda, perché l'unica immago a rifulgere doveva esser la sua: e si riscopre una coppia, Nello Mascia-Andrea Renzi, che la poetica attoriale ha codificato anche in questa notevole pièce al Bellini, “The Red Lion”, su testo di Marber, drammaturgo anglofono di solida scena; ed è proscenio scalcagnato, uno spogliatoio-mondo, dove cambiar sciassa e abito, per miserie e vanagloria, schizzi di sangue incatramato a polpacci e scarpini chiodati, ad aggrapparsi all'argine che ognuno di noi ha nell'intimo a fermentare, scavato in sé stesso: quel leone rosso e vermiglio, che ci rugge in petto, che ci trascina nel vortice di una vita in saliscendi, menzognera e spergiura.

Una disfida periferica, nell'alveo di campi minori, di provincia nero pece, tra un Mister viveur e strafottente, effluvio a dopo-barba, riflesso mediatico in cerca di luce, domatore di talenti e animali da rena (un Andrea Renzi in spettacolare forma); e un factotum-massaggiatore, vecchia gloria, Leone Rosso infiacchito e stracquo, un Nello Mascia misurato, perfetto contrappunto speculare al Mister-incantatore, e disadorno, poetico e decadente, alla ricerca d'un riscatto in loop, per un senso che sia nesso col passato, con le fole del tempo perduto. Due lemuri a tirante contrapposto, a contendersi la scena, per i favori d' un ragazzo, un calciatore acerbo, ancor “puro”, un anfibio corazzato di muscoli e paure, figlio d'una terra avara, che quando germoglia a talento lo fa gettando il seme con disprezzo, in campagna alta e incolta, sperando che qualcuno, la ciorta ovvero il caso, ne raccolga fortuna, ne rinsaldi il destino: Simone Mazzella è un torello inquieto e spavaldo, ali tarpate ancora, ancora per poco, e cupio, desiderio a gioventù, di spiccare il volo, per danzare nel barnum dei pochi, nell'onfalos a business di uno sport divenuto medialità coatta per cicisbei e luci e proscenio, di bifolchi miliardari.

Una prova cerusica e muscolare, il palco ligneo che diviene speculum per maschere livide e grottesche, eppure struggenti, pregne; bigger than life, si direbbe a stelle e strisce, perché il calcio è meta-lingua, universale balocco, mille rivoli a declinarsi, a rifrangerne il senso, le espressività, i picchi e le miserie, gli splendori e gli umori viscerali: troppo grande è il simulacro, il monstrum sacer, il sacello tribale da onorare, la divinità apollinea e dioscura da ingraziare; troppo il maelstrom, il flusso vitale da arginare, il demone interiore da saziare; troppo per tre solitudini in scena, tra maschere umane, travolte da un destino umano troppo umano, intimo eppur universale, che credevano di poter domare, blandire, saziare. Come un vecchio leone, rosso di riflesso, perché scarnificato a sangue, perché umido di frattaglie altrui, che poi si scopre esser prosaicamente le proprie, cannibalizzate da un gioco, dal Gioco, più grande: e la vita rotola via in campo lungo, a scossoni e rimbalzi, come pallone indecifrabile. Spettacolo notevole, sipario perfetto, applausi convinti: da rivedere ad libitum.  

THE RED LION di Patrick Marber
traduzione Marco Casazza
adattamento Andrej Longo

con Nello Mascia, Andrea Renzi, Simone Mazzella

scene Luigi Ferrigno
costumi Anna Verde
luci Pasquale Mari
colonna sonora Marcello Cotugno

regia Marcello Cotugno

coproduzione La Pirandelliana/Teatri Uniti

 

 

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