IL MEDICO DEI PAZZI 223 drammaturgia e regia di Giuseppe Sollazzo con Giovanni Mauriello

Teatro dei Mendicanti  di San Giovanni a Teduccio

Servizio di Fiorella Taglialatela

Ha inaugurato la stagione del Teatro dei Mendicanti  di San Giovanni a Teduccio, lo spettacolo prodotto dal Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino, “Il Medico dei pazzi 223” con drammaturgia e regia di Giuseppe Sollazzo, con Giovanni Mauriello protagonista affiancato da un folto gruppo di collaudati  interpreti napoletani  e da  giovani allievi del Conservatorio. Musiche originali di Pericle Odierna, testi delle canzoni di Fabio Lastrucci. Il titolo allude ironicamente alla molteplicità di allestimenti cui la commedia di Scarpetta è andata incontro con esiti alterni, in una parabola interpretativa ormai più lunga di un secolo. L’inflazione delle proposte induce il regista, Giuseppe Sollazzo, a bilanciarsi sul filo tra fedeltà e tradimento e a imbastire una lettura ibrida, che per larghe porzioni riporta il testo nella sua integrità, sotto la luce piena dei riflettori, con esuberanze da teatro boulevardier, ma poi lo contrappunta – in parte lo integra e in parte lo contraddice – con una  scena  in ombra, che getta  uno sguardo, in tralice, su segmenti non meno ordinari della realtà, restituendoli secondo una drammaturgia alternativa, in cui la parola è assente. Questo strabismo della rappresentazione conferisce un  ritmo insolito allo spettacolo che procede  a scatti, per esplicite dicotomie e impagina quadri provocatoriamente  sconnessi.

Da un lato, ci sono i personaggi del teatro di Scarpetta, disposti in parata, irrigiditi in astrazione fisiognomica, sia nel saluto alla ribalta, sia nelle pose da seduti. Portano a volte le maschere della commedia dell’arte e seguono la moda d’inizio secolo, ma i loro costumi ne enfatizzano la ricercatezza con un certo sfarzo non privo di volgarità: abbondanza di accessori, stoffe lucenti e colori vividi, spesso arditamente accostati come nel bigarratus dei giullari o nei costumi da clown, quasi a segnare in sottotraccia, la continuità con più antichi retaggi. Postura, mimica e voce mostrano un eccesso di artificio e, per questa via, ritagliano per frammenti la trama facendone citazioni ‘da cammeo’. A rafforzare l’effetto d’irrealtà interviene la musica, affidata a una compagine di fiati, a tratti scomposta e a tratti elegiaca: suggestioni bandistiche, forse echi da circo, ma soprattutto la rievocazione del varietà, la memoria degli spettacoli da rivista, con l’impasto fra codici in funzione di reciproco straniamento, in grado di stemperare il dramma in farsa e l’amarezza del realismo in grottesco, nel gioco di rifrazioni di una rêverie fantastica.

Per contrasto, quasi in ‘controsoggetto’, si staglia a intermittenza uno spazio estraniato: il palcoscenico al buio con la profondità delle ombre e l’assenza di colore, con lo schermo per proiettare i filmati in bianco e nero e con gli attori avvolti negli “abiti della realtà”, in grisaglie che di fatto li rendono indistinguibili. Se tutte le creature di Scarpetta si dichiarano immediatamente, dal nipote Ciccillo allo zio di paese, dalla vedova della pensione Stella a sua figlia in cerca di marito, quasi nulla emerge dall’identità di questi personaggi, anonimi e spesso silenziosi, ridotti a nude sagome sotto una lama di luce, circoscritti dentro uno spicchio di scena prima di essere nuovamente risucchiati nell’oscurità da cui provengono. In loro non mancherebbero gli attributi delle tipologie tradizionali: Ciccillo il giovane “squattrinato”, Bettina “la cameriera canterina” e i loro compagni scarpettiani sono ora diventati un uomo con un libro, una donna alla finestra, un ubriaco e una bimba col violino, un clochard separato dalla moglie, la figlia di una donna in prigione o un attore violento in famiglia…. In questo mondo d’ombra a mancare è, invece, la dimensione in cui “ogni faccia è ‘na macchietta,/ ogni iuorno ‘o cabaret”.  Quegli attributi che basterebbero all’innesco di un canovaccio, allo sviluppo e allo scioglimento di un intreccio, non valgono qui a raccontare la vertigine del rischio, il bilico della scelta che si cela dietro ogni uomo e che trasforma l’ordinarietà di una biografia nell’enigma di un destino: la voce fuori campo avvisa che noi tutti siamo ormai spaccati a metà, “intrappolati fra l’eroico e il patetico”, eppure “ancora divini” e, dunque, al contempo “mostruosi”, per insanabile contraddizione. In questo mondo di luci radenti e di profili in penombra, le storie affondano in un’infelicità che non sa riscattarsi nel comico, né può esplodere in tragedia, ma si decanta comunque nel sublime per effetto di un’umanissima fragilità. A mostrarla è di volta in volta un laconico indizio di ‘passione’: è la rabbia di un ubriaco che spezza il violino alla figlia, è la fatica domestica che, in assenza della madre, trasforma una bambina in una donna davanti a un asse da stiro, è il gesto violento di un marito che picchia sua moglie, è ancora un singhiozzo strozzato sotto la superficie di una conversazione di circostanza, nelle battute di un clochard a telefono con una donna disamorata…

A congedo dello spettacolo, la voce fuori campo suggerisce che, pur nella passione della fragilità, la vita scorre “eroica e divina”: siamo nati per la gloria. La tacita memoria di Giordano Bruno rimanda a una primigenia innocenza che la magia del teatro ha il potere di ripristinare. Il clochard che s’ostina a telefono con una moglie indifferente, è tuttavia capace di indagare nell’immondizia come fra i resti della sua stessa vita e di estrarvi un libro su cui leggere una citazione dal valore di simbolo: “Illustri e venerandi patrizi…”, un passo della commedia di Scarpetta che, in galleria di specchi, rimanda a un brano di Otello e, per questo tramite, a un’intera tradizione… Ma soprattutto, egli è in grado di preservare un unico oggetto dal fallimento, quasi un talismano fortunosamente sottratto al macero dei rifiuti: la croce in legno e i fili spezzati di un bilancino per azionare marionette… Nell’essenzialità del gesto sembra riecheggiare il primo intervento della voce fuori campo, quella nostalgia confessata in anticipo, fin dall’inizio dello spettacolo, che serpeggia implicita lungo tutta la rappresentazione e che il congegno rotto del bilancino, segno d’una marionetta ormai perduta, non smette ancora di evocare: “Eppure c’è stato un tempo in cui buon giorno voleva dire veramente buongiorno. La domenica s’indossava l’abito della domenica, e i bambini andavano a vedere il teatro dei burattini. Anche mio nonno mi portava per mano nella villa comunale, a vedere le guarrattelle. Quelle mattine volevo che non finissero mai. Quando il sipario rosso si chiudeva io dicevo non ancora! Non ancora! È troppo presto, nonno, non adesso”.

Trasfigurata in controluce da quel bilancino e dalla nostalgia, la commedia di Scarpetta entra nel variopinto caleidoscopio di un inesauribile catalogo di avventure, dentro un mondo contemplato con immutata meraviglia, senza il filtro sociologico che ne ha storicamente fatto un’espressione borghese del trasformismo d’inizio Novecento. Per questa via, i meccanismi di una comicità ancorché consunta si rigenerano come d’incanto: al pari del teatro di marionette, il loro artificio manifesto non rende meno intenso e salvifico il fascino delle storie. A dare corpo e anima a  questa giostra di emozioni una folta compagine  di attori, fra cui spiccano il talento antico di Giovanni Mauriello, Ingrid Sansone, Giorgio Pinto, Matteo Mauriello, e  il  temperamento ruvido di attori presi  in prestito dalla realtà, Maria Ciappa, Luisa Prugno, Anna Cerroni, e le voci dei giovani cantanti del Conservatorio: Giovanna Cappiello, Deborah Giordano, Flavio Siani. Lo spettacolo sarà replicato nel teatro del Conservatorio di Avellino, nella prossima primavera.



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